Hanno lavorato giorno e notte per realizzare la casa di Babbo Natale. Chi ha spaccato la legna, chi ha verniciato la slitta o l’albero, chi ha raccolto le foglie per delle piccole composizioni, chi il muschio e le pietre per fare la grotta. Tra la visita di un avvocato e la telefonata con i genitori in Senegal o in Ghana che fino a poco tempo fa, quando erano in carcere, li credevano morti. Tra una parola di speranza e un’altra. Prima di firmare dai carabinieri, come fanno ogni pomeriggio in attesa di tornare in prigione.
La casa di Babbo Natale del laboratorio multiculturale Terra Viva, a San Giovanni La Punta, nel Catanese, con l’Etna innevato che giganteggia sullo sfondo, non è stata fatta da semplici falegnami, ma da scafisti che come in questo e in molti altri casi, sono migranti come gli altri o forse più degli altri.
«Scafista, cosa significa scafista? Io non lo sono e non ho neanche guidato la barca. Sono stato picchiato per cinque giorni consecutivi in una prigione a Tripoli, nella stanza dove mettono tutti quelli che non hanno pagato», racconta Alexandre che per la sua imponente stazza fisica qui è soprannominato Hulk, ma poi ascolta Radio Maria. «Quando eravamo nella barca, i libici mi hanno afferrato per il collo e puntato la pistola alla tempia. Mi hanno obbligato a guidare, mentre a un ragazzo del Gambia solo perché sapeva l’inglese hanno dato il Gps con il numero dei soccorsi da chiamare una volta raggiunte le acque internazionali», prosegue il racconto Abdou, qui agli arresti domiciliari dopo aver già scontato due anni al carcere di piazza Lanza a Catania: «In carcere mi hanno portato scalzo e sono stato un mese in isolamento perché avevo la scabbia».
Sbarchi diversi. Storie e racconti che hanno in comune minacce e violenze di ogni tipo. Frasi ricorrenti come: «Se provi a tornare indietro ti ammazziamo», precedute quasi sempre da torture nei campi di detenzione in Libia. John dice di essere stato minacciato dai libici con i kalashnikov prima della partenza da Sabrata: «Vedi questo», indica il viso, «mi hanno marchiato con il ferro e il fuoco».
Isaac, del Ghana come John, racconta una storia simile: «Ci picchiavano, io ho detto che non volevo guidare il gommone, mi sono rifiutato e mi hanno detto che mi avrebbero ucciso, ero terrorizzato, non conoscevo la rotta». Isaac è sbarcato al porto di Catania il 24 giugno 2016 da Nave Spica della Marina Militare, durante i soccorsi – come spesso accade – c’è stata concitazione a bordo e una ragazza nigeriana è morta. «Le persone con cui viaggiavo mi hanno ringraziato per avergli salvato la vita».
Secondo l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione, la pena prevista per gli scafisti va da un minimo di 5 a un massimo di 15 anni con una multa di 15 o 25 mila euro per ogni persona entrata nel territorio italiano. Una cifra esorbitante, con i vari sconti, intorno al milione di euro e che i migranti non riusciranno mai pagare: «Un mio assistito, condannato a due anni e sei mesi, ha un’ammenda di 924.445 euro», spiega l’avvocato Rosa Emanuela Lo Faro che nella sua carriera ha difeso più di 50 scafisti: «C’è un vuoto legislativo. Non si può generalizzare. Si dovrebbe distinguere tra il criminale e chi viene minacciato con le armi per guidare l’imbarcazione. Solo uno su dieci lo fa per professione».
Al reato di favoreggiamento si aggiungono le aggravanti: il trasporto di cinque e più persone, l’esposizione al rischio della vita su “una imbarcazione priva di sicurezza”, che di certo non scelgono loro, la disponibilità di armi e il profitto economico. Gli “scafisti” che Vita.it ha incontrato raccontano che non solo non erano armati, ma che hanno pagato il viaggio, sotto minaccia delle armi, come tutti gli altri migranti.
«L’art.12 va rivisto. Si tratta di norme che si riferiscono ai trafficanti, ma vengono applicate agli scafisti. È una figura che è mutata nel corso degli anni e, in questi casi, chiediamo che sia collocata tra le vittime di tratta», spiegano gli avvocati Paola Ottaviano e Germana Graceffo dell’associazione Borderline Sicilia che, secondo uno studio, ha calcolato che ad essere arrestati sono due scafisti ogni 100 migranti.
Per chiedere l’assoluzione, alcuni avvocati si basano sull’esimente dello stato di necessità previsto dal codice penale, ma i casi di assoluzione si contano ancora sulla punta delle dita e spesso si punta al patteggiamento per ottenere almeno una riduzione della pena.
Sul fenomeno si è pronunciata la Procura di Catania. Durante l’audizione alla Camera del 22 marzo 2017, il procuratore Carmelo Zuccaro ha spiegato come “le persone che si pongono alla guida di questi barconi sono sempre più inidonee, non più appartenenti, sia pure a livello basso, all’organizzazione del traffico. Persone che vengono scelte all’ultimo momento tra gli stessi migranti”.
La Procura di Catania precisa che “non ha emesso nessuna circolare per affermare che non bisognava procedere nei confronti degli scafisti occasionali perché scriminati dallo stato di necessità”, ha invece deciso di non procedere in questi casi al fermo degli scafisti occasionali perché “non inseriti in un contesto associativo dedito al traffico di migranti” e perché la loro condotta “non appariva connotata da una gravità e pericolosità tale da giustificare una misura cautelare”.
Nonostante la linea della Procura, gli "scafisti" già condannati tornano in carcere e John sta per lasciare la casa di Babbo Natale. “Si era appena comprato i detersivi per lavare i vestiti, un dentifricio e uno spazzolino nuovo. I miei ragazzi sono distrutti, piangono: qui nessuno si spiega il perché. Anche i carabinieri che sono venuti a prenderselo hanno detto che John è un bravo ragazzo. Lo Stato però non fa niente”, racconta Giuseppe Messina, presidente e fondatore dell’associazione Insieme che ha dato vita al laboratorio Terra Viva.
«Non dimenticherò mai gli occhioni di un ragazzino minorenne accusato di essere uno scafista. Piangeva e ripeteva sempre: io sono piccolo. Si è poi riusciti ad appurare che era minorenne ed è stato scarcerato, ma un mese e mezzo dentro se lo è fatto», racconta Salvo Coco, psicologo penitenziario nel carcere di Catania e Giarre. “In carcere non ci sono interpreti all’altezza in grado di parlare con loro. Quando vogliono comunicare, piangono, sbattono i pugni perché nessuno li capisce. E non mancano casi di autolesionismo”, aggiunge lo psicologo. «Scafisti veri non se ne vedono più da tempo, questi migranti portano ferite nell’anima e nel corpo che difficilmente riusciranno a ricucire. Tra le torture che subiscono vengono spesso picchiati con il fucile, in un caso che abbiamo seguito a un minorenne sono stati staccati sei denti con una pinza», aggiunge Giuseppe Cannella psicologo e psichiatra di Medici per i diritti umani.
Nella casa di babbo Natale è tutto pronto per il taglio del nastro. I falegnami che l’hanno realizzata preferiscono stare dietro le quinte e mangiare un po’ di panettone. «Io vivo con questi ragazzi. La notte non dormo perché penso al giorno in cui dovranno ritornare in prigione come nel caso di John. Non è possibile. In carcere deve andare chi ha sbagliato, non loro», racconta Giuseppe Messina, presidente e fondatore dell’associazione Insieme che ha dato vita al laboratorio Terra Viva e che per aiutare i suoi ragazzi nel cantiere natalizio ha coinvolto persino i militari della base americana di Sigonella.
La casa di Babbo Natale è ora aperta al pubblico. Giuseppe ha appena salutato John tra le lacrime di tutti, mentre un bambino seduto sulle gambe di Babbo Natale sussurra un desiderio. Sotto l’albero vuole ricevere una grande barca ed essere il capitano.
Non siamo scafisti
Testi e Foto a cura di Alessandro Puglia
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