“Non avevo altra scelta”: è questa la risposta più frequente che danno gli abitanti della tendopoli di San Ferdinando sul perché siano finiti a Rosarno.
È un giovedì pomeriggio E sono molte le persone che si aggirano tra le tende perché oggi non hanno trovato lavoro. La stagione della raccolta degli agrumi è alla fine: c'è chi si prepara a partire per (quello che i lavoratori migranti chiamano) “il tour”, dalla Calabria alla Puglia per la raccolta dei pomodori. La paga è sempre la stessa: 25 euro al giorno. Oppure a cottimo: 1 euro a cassetta per i mandarini, 50 centesimi per le arance. Chi ha le possibilità economiche e i documenti in regola, andrà a Saluzzo, in Piemonte.
Ma un numero crescente di persone, almeno 600, decide di fermarsi qui per tutta l'estate: sopravviveranno con lavori alla giornata, dalla raccolta di cipolle alla potatura degli alberi. E il prossimo inverno saranno in vantaggio rispetto agli altri, perché si saranno già sistemati nella tendopoli e forse saranno anche riusciti ad ottenere un buon contatto con un datore di lavoro.
La tendopoli di San Ferdinando, che in inverno arriva ad ospitare tra le 2.500 e le 3mila persone, è un capolinea, geografico e non solo. Isolata dal resto del centro abitato, la tendopoli si trova in uno spiazzo tra i capannoni abbandonati di quella che doveva essere la zona di sviluppo del porto di Gioia Tauro, uno dei porti più importanti del Mediterraneo e che da solo contribuisce al 72% del Pil calabrese.
Ma per i migranti, questo luogo è il fondo di un imbuto. I tendoni blu installati dalla protezione civile quasi dieci anni fa sono stati rinforzati da pezzi di cartone o di compensato e da teloni di plastica. Con la pioggia, lo spiazzo si riempie di fango. Non c'è acqua corrente e i servizi igienici sono completamente inadeguati. Ai due estremi dello spiazzo stazionano due auto della polizia, giorno e notte. In pochi hanno dubbi: Rosarno è il posto peggiore dove siano mai stati. Anche alla seconda domanda, su quali siano le motivazioni che li abbiano portati qui la risposta è quasi sempre la stessa: problemi con i documenti.
In realtà, almeno stando ai dati raccolti dalla clinica mobile di “Medici per i diritti umani – Medu”, le persone senza documenti in regola sarebbero una minoranza – meno del 10%. Ma sono sempre più numerosi i richiedenti asilo “diniegati”, cioè chi ha ricevuto un primo o un secondo diniego alla domanda di asilo – circa il 37%, sempre secondo Medu.
Nonostante fosse inizialmente previsto, nelle vicinanze della tendopoli non è c'è nessuno sportello fisso di informazione o di tutela legale. Così, chi non segue per conto proprio e con attenzione le procedure per i rinnovi, manca gli appuntamenti in Questura o con l'avvocato che segue il ricorso della domanda di asilo, rischia di diventare irregolare (proprio mentre si trova a Rosarno). Normalmente, i richiedenti asilo avviano la procedura di richiesta asilo dal centro di accoglienza in cui sono ospitati. E anche se poi si spostano – è il caso ad esempio di chi va a lavorare a Rosarno – devono continuare a seguire il ricorso là dove hanno inizialmente fatto richiesta.
Era una “diniegata” anche Becky Moses, una donna nigeriana di 26 anni morta nel rogo che ha bruciato parte della tendopoli lo scorso 27 gennaio. Moses viveva a Riace, sempre in Calabria, ed era inserita in uno dei progetti di accoglienza e di integrazione del Comune. Poi a dicembre è arrivato il diniego: ha dovuto lasciare il posto in cui viveva e si è spostata a Rosarno. Nel punto in cui è stato trovato il suo corpo, tra i resti delle baracche carbonizzate, ci sono oggi dei fiori.
A guidarci all'interno della vecchia tendopoli sono Jacoub Atta e Khadim Gaye. “L'unica cosa che so – dice Atta – è che prima poi tutti quelli che non hanno scelta vengono qua”. Atta oggi è un delegato di Flai-Cgil, ma conosce in prima persona le condizioni di vita e di lavoro nella piana di Gioia Tauro. Arrivato dal Ghana nel 2009, ha lavorato prima a Foggia e poi, nel 2012, si è spostato in Calabria e non se ne è più andato: “Non sapevo nulla, né dei miei diritti di lavoratore, né cosa fossa una busta paga, né come fare per rinnovare i documenti”. Atta e Gaye, insieme a Celeste Logiacco, lavorano allo sportello di Flai-Cgil a Gioia Tauro. Ma da San Ferdinando fino al loro ufficio ci vuole almeno mezz'ora in bici. Così insieme a Logiacco al mattino all'alba girano con una macchina tra i campi e le rotonde dove i caporali reclutano i lavoratori, per informare i migranti sui loro diritti.
“Quello che tiene le persone qui, è la speranza – spiega Khadim – chi non ha un permesso di soggiorno spera di trovare il modo di ottenerlo. Chi non ha un lavoro resta qui in attesa, cercando di sopravvivere, con la speranza in futuro di trovare un lavoro migliore”. In realtà, però, per chi ha perso il permesso di soggiorno, o ha ricevuto un diniego definitivo alla domanda di asilo, le possibilità sono ben poche. Quello in cui sperano i migranti senza permesso, anche se nessuno lo dice, è una sanatoria, una regolarizzazione. Ma l'ultima risale al 2012, con il Governo Monti.
In ogni caso la speranza, aggiunge Atta, non devono perderla nemmeno loro, per poter continuare l'attività sindacale. Organizzare persone che hanno esigenze – e soprattutto urgenze – spesso molto diverse, convincerle a dire di no a chi offre anche meno di 25 euro al giorno, è indubbiamente complesso. In più, c'è il problema del lavoro 'grigio': secondo Medu, l'80% dei lavoratori non ha un contratto. Il problema è che, per tutelarsi in caso di controlli, i datori di lavoro fanno spesso un contratto falso, che poi non registrano o che comunque non rispettano, né in termini di orario di lavoro né di retribuzione.
Come spiega Logiacco, nemmeno portare avanti azioni individuali è semplice: “Di vertenze e di denunce per sfruttamento lavorativo ne abbiamo avviate parecchie, ma poi si arriva sempre ad un nulla di fatto”. Spesso, infatti, i migranti si spostano per lavorare altrove, oppure temono il ricatto dei caporali e dei datori di lavoro. “Noi dobbiamo comunque tentare – sottolinea Atta – se ci arrendessimo vorrebbe dire che li stiamo abbandonando”.
La maggior parte dei migranti che lavorano a Rosarno vengono dall'Africa occidentale: Gambia, Ghana, Sierra Leone, Senegal e Nigeria. E se fino ad una decina di anni fa a finire a Rosarno erano soprattutto i migranti che per effetto della crisi avevano perso il lavoro – e quindi anche il permesso di soggiorno – , oggi sono soprattutto richiedenti asilo: persone che abbandonano i centri di accoglienza perché hanno bisogno di lavorare e sono stanchi di aspettare. Oppure persone allontanate dai centri di accoglienza dopo il diniego della commissione territoriale.
Rosarno da questo punto di vista è una cartina di tornasole di quanto succede a livello nazionale. Nel 2017 in Italia sono state presentate 130mila domande di asilo. Di queste 91mila sono state analizzate e nel 58% dei casi la risposta è stata negativa: nessuna protezione. Secondo Oliviero Forti, di Caritas, i dinieghi sono in aumento per almeno due motivi: le nazionalità di provenienza, ma anche “un inasprimento nelle commissioni che concedono sempre meno forme di protezione”. La questione cruciale, secondo Forti, è ciò che succede una volta che la domanda è stata respinta: “Molte persone restano sul territorio, senza protezione”. E quindi ancora più esposti allo sfruttamento.
Sul territorio iniziano già ad essere evidenti anche gli effetti del decreto Minniti-Orlando: “Stiamo assistendo ad un aumento dei dinieghi definitivi, per effetto del decreto – afferma Aboubakar Soumahoro del Coordinamento Lavoratori Agricoli USB -. Lo vediamo anche nel nostro lavoro quotidiano allo sportello”.
In nome della semplificazione dei procedimenti giudiziari e dell’esigenza di alleggerire il sovraccarico del sistema d’accoglienza, il decreto del Governo Renzi ha annullato il grado d’appello contro il diniego dell'asilo. In altre parole, i richiedenti a cui la commissione territoriale rifiuta la protezione, non hanno più a disposizione due gradi di giudizio ma un solo appello di fronte al tribunale per opporsi al diniego (oltre alla possibilità di ricorso in Cassazione in caso di errori di diritto).
Soumahoro parla chiaro: “Il punto è che di Rosarno si parla sempre come di una questione legata solo all'immigrazione, quando il vero problema è il mancato riconoscimento dei diritti dei lavoratori: si distrae in maniera colpevole l'attenzione da questo, spostando tutto e solo sul tema migranti”. Secondo Soumahoro la chiave è dare la possibilità ai migranti di regolarizzarsi:
“È questo che le persone attendono a Rosarno. E c'è bisogno di una regolarizzazione anche perché non si possono costringere i migranti a entrare per forza nelle misure di protezione internazionale anche quando non ne hanno bisogno o non si ritengono dei profughi”.
Lo scorso agosto la protezione civile ha installato una nuova tendopoli, a poche centinaia di metri da quella storica. Obiettivo, superare la “condizione di degrado” della vecchia tendopoli. Costata 300mila euro (spesa sostenuta grazie ad un finanziamento della Regione) la nuova tendopoli è controllata da telecamere e circondata da mura alte una paio di metri e da grate in metallo. All'interno, 54 tende per 700 posti. Un tendone funge da moschea e un altro, poco lontano, da chiesa. I bagni sono all'interno di alcuni container. Poco lontano, un altro container funge da cucina, con alcuni fornelli dove i migranti possono cucinarsi i pasti.
La gestione doveva essere affidata dal Comune di di San Ferdinando tramite un bando, che però non è ancora stato fatto. Al momento, ad occuparsi del controllo degli ingressi e della pulizia è, per circa 13mila euro al mese, la cooperativa Augustus. Per entrare occorre lasciare un documento all'ingresso.
Entriamo in una delle tende: all'interno ci sono sei brandine. Due persone stanno ascoltando la musica, un altro sta preparando un thè. Barry ha 24 anni e viene dalla Sierra Leone. È arrabbiato, perché ha passato la notte di fronte alla Questura, per essere sicuro di ottenere un appuntamento in mattinata. Barry ha fatto richiesta d’asilo, ma la commissione e il tribunale di primo grado gli hanno negato la protezione. Ora è in attesa dell'appello che si decide ad Ancona, dove lui è stato inizialmente accolto.
I suoi genitori sono morti quando lui era un bambino, durante la guerra civile. Poi tre anni fa con l’epidemia di ebola sono morti anche i suoi genitori adottivi. Non aveva più nulla, dice, così se ne è andato per lavorare in Libia. E da lì, l’Italia. Ma queste non sono ragioni sufficienti per la commissione.
“Conosco diverse persone – spiega Barry – che mi hanno detto che non potevano più di aspettare, stando qui a Rosarno: se ne sono andati in Germania o in Francia, ma poi quando lì sono stati fermati, sono stati rimandati in Italia, perché non avevano i documenti. E così sono tornati di nuovo a Rosarno. Questa è l’ultima spiaggia”. E a differenza loro, Barry è rassegnato ad aspettare qui, almeno per ora.
Nonostante per il ricorso sia previsto il patrocinio gratuito, Barry è stato costretto a pagare 250 euro ad un avvocato per seguire il ricorso e l'appello rispetto alla sua domanda di asilo. Il processo si svolge ad Ancona: “La cosa che mi fa arrabbiare di più, è proprio il mio avvocato – dice –. Non so nemmeno se mi posso fidare: il mese scorso, ad esempio, mi ha chiamato perché c’era la seconda udienza. Mi son pagato il viaggio fino ad Ancona e da dormire. E poi una volta là l’ho chiamato: avevamo appuntamento in tribunale, ma lui non si è presentato. L’ho chiamato per tutto il giorno, ma non mi ha più risposto”. Barry, non sapendo cosa fare, ha chiesto aiuto ad alcuni poliziotti che erano fuori dal tribunale: “Mi hanno detto ‘Ci dispiace ma non possiamo farci niente’. E così sono tornato a Rosarno. Ho buttato via i soldi per nulla”.
Ma Barry ha ancora speranza: vuole studiare, spera di riuscire a farsi riconoscere il diploma che ha ottenuto in Sierra Leone. “Se otterrò il diniego? Non lo so, credo che mi sposterò comunque a Roma. Per ogni problema esiste una soluzione”.
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