A pochi chilometri dal confine croato, in una piazza circondata da blocchi in stile socialista e con una moschea ottomana nel mezzo, due ragazzi studiano una mappa su un telefonino, uno dei due ha una gamba ingessata, entrambi hanno l'aria esausta e spaesata di chi proviene da molto lontano: «Bisogna aspettare il tramonto, questa sarà notte sicuramente quella buona», si assicurano l'un l'altro. Nel frattempo un boato proveniente dai boschi, rimbomba nella tranquilla cittadina di Velika Kladusa, dove questo progetto di fuga, così come altri, ha luogo. Il primo pensiero va logicamente a quel conflitto che vent'anni fa ha martoriato questa zona e i Balcani, o ai ricorrenti arresti accompagnati da spari che avvengono quando qualche migrante cerca di sconfinare dall'altra parte. «Staranno festeggiando qualcosa», tranquillizza Asmir, il gestore di un bar sulla piazza «Dall'ultima guerra, molti conservano ancora un'arma da fuoco in casa, non si sa mai scoppi di nuovo qualcosa con i vicini, e c'è sempre una buona occasione per sparare qualche colpo».
Velika Kladusa per quanto dai più sconosciuta, tra il 1993 e il 1995 divenne la capitale della Repubblica della Bosnia Occidentale, una piccola entità musulmana in conflitto con il governo bosgnacco di Sarajevo e alleata con le milizie serbe e croate, e negli ultimi anni è tornata a far parlare di sé a causa della supposta presenza nelle vicinanze di enclaves salafite dove sventolerebbe la bandiera nera di Daesh. Terra di incontro di più popoli e paese natio di profughi che adesso abitano nelle città industriali dell'Austria o della Slovenia, negli ultimi mesi Velika Kladuša è diventata il cul-de-sac per migliaia di migranti che attraversando la rotta balcanica tentano disperatamente di passare in Unione Europea, venendo il più delle volte, rispediti brutalmente dalla polizia croata appena passato il confine. La maggior parte di loro “abita” nella vicina tendopoli che ha trovato spazio, in accordo con l'amministrazione locale, oltre il fiume e le coltivazioni. Gli altri vivono nei boschi, nei parcheggi, negli edifici abbandonati, o altrimenti sono ospitati dalla gente del luogo. L'accoglienza e la solidarietà dei locali è proprio ciò che distingue questa città della Bosnia settentrionale da altri luoghi analoghi coinvolti dalla crisi migratoria cominciata nel 2015: i ristoranti offrono pasti e bevande gratuite, i supermercati e le ferramenta vendono materiali a prezzi scontati, le aziende della zona danno lavoro ai migranti presenti, persino la polizia, secondo l'opinione di molti degli intervistati, è maggiormente tollerante rispetto a quella degli stati vicini. Per esempio il ristorante “Kod Latana” nel centro città, si è trasformato in una cucina solidale che distribuisce due pasti gratuiti al giorno, serviti ai tavoli con piatti di ceramica e posate di acciaio «non facciamo caso alla religione o la provenienza delle persone che arrivano qua, anche noi siamo stati profughi, ogni essere umano ha diritto ad essere accolto e rispettato, specie se in difficoltà», afferma il gestore Halil.
Nonostante ciò la situazione rimane problematica, le condizioni igienico-sanitarie dei luoghi che ospitano i rifugiati sono pessime, e lo stress e le tensioni cominciano a farsi avvertire «le persone sono in gran parte tranquille, ma dopo mesi in questo limbo chiunque impazzirebbe», spiega Dragan, un poliziotto locale.
Esclusa la presenza nella zona di Medici Senza Frontiere, e dell'UNHCR che monitora il campo, il sostegno maggiore nei confronti dei rifugiati è svolto da un paio di volontari autonomi coordinati soprattutto da Adis, un ragazzo di 39 anni, ex veterano della Guerra Bosniaca da anni presente nei principali campi profughi dei Balcani. In pochi giorni il gruppo messo su da lui e da Petra, una ragazza austriaca di 26 anni anche lei sempre in prima linea, insieme ad altri ragazzi provenienti da tutta Europa, sono diventati un punto di riferimento per tutti i rifugiati presenti nella cittadina bosniaca. Sotto la sigla SOS Team Kladuša, hanno allestito alcune docce, insieme al comune hanno portato bagni ed illuminazione nella tendopoli, e da un ex macello hanno ricavato un magazzino per la distribuzione di vestiti usati.
«È la prima volta che mi ritrovo a fare questo lavoro, ma qualcuno bisogna pur che lo faccia», racconta Adis mentre si ingegna, con l'ausilio di altri migranti, tra assi di legno e teli di plastica ecosostenibile per costruire tende che di ora in ora diventano sempre più numerose e richieste, o mentre si improvvisa medico per disinfettare o fasciare le punture di insetto che tormentano coloro che dormono tra le sterpaglie e il fango. Le ferite più difficili da sanare sono però quelle susseguite agli sfortunati incontri con la polizia croata, nel campo continuamente ci si imbatte con persone con braccia rotte e gambe ingessate, o bruciature di sigarette sul corpo. La polizia presidia infatti l'altro lato del confine con elicotteri, cani e un grande dispiegamento di forze, oltre ai pestaggi, tutti confermano la distruzione dei propri telefoni cellulari, così da eliminare foto e GPS che registrerebbero le prove del loro respingimento, altri dichiarano addirittura sottrazione di denaro e di oggetti personali. «È da oltre un anno che viaggio e che veniamo spostati da un campo profughi all'altro, abbiamo rischiato di affogare su un gommone tra la Turchia e la Grecia, abbiamo attraversato a piedi valichi di montagna, foreste, vorremmo almeno avere possibilità di fare richiesta di asilo in Europa, nel mio paese non posso più vivere se voglio garantire un futuro alla mia famiglia», racconta Kheder, un afghano di 28 anni, presente nel campo con la moglie incinta e la figlia di 8 anni.
Con la politica adottata dall'Italia del vicepremier Matteo Salvini, e la pericolosità degli attraversamenti nel Mediterraneo, la rotta balcanica è ormai intrapresa anche da rifugiati provenienti dall'Africa. Non è raro infatti incontrare libici, algerini, tunisini o nigeriani. Nel campo convivono pacificamente religioni diverse, i cristiani soprattutto del Pakistan e dell'Iran sono numerosi, come Omid, di 42 anni, il quale è arrivato da poco qui con la propria moglie e i due figli «in Germania abita mio fratello, altri miei parenti l'hanno raggiunto nei mesi precedenti, pensavamo anche noi che non avremmo avuto problemi, così abbiamo intrapreso questo viaggio». Accanto ad una tenda di musulmani del Punjab ha posizionato le proprie cose in attesa di una sistemazione migliore, Mustafa, un ragazzo siriano di 23 anni: «ho tentato due volte ad attraversare il confine, perché la Croazia non ci lascia passare?». I volontari di SOS Team Kladuša si aggirano continuamente tra le tende per elencare le singole necessità di ciascuno: teli per ripararsi dalla pioggia, coperte, materassi per dormire, ma soprattutto scarpe resistenti per ritentare la fuga attraverso boschi e prati. Le donazioni, sia da parte di privati che di associazioni locali, hanno reso possibile questa attività, «tutto ciò che acquistiamo per i profughi, viene regolarmente fatturato e mostrato ai donatori» specifica Adis. Di volta in volta fanno il loro ingresso nel campo macchine con targa bosniaca o tedesca dalle quali escono scatoloni cibi e matasse di vestiti, i bambini e gli adulti le circondano disponendosi poi in fila indiana.
Parte di questi aiuti sono finanziati da organizzazioni islamiche locali o internazionali, che comunque sembrano non attuare differenze religiose tra le persone presenti nella tendopoli.
«Non ho mai conosciuto nella mia vita gente migliore di questa», afferma Javed, un ragazzo afghano che ha studiato Scienze Politiche e ha collaborato con un'organizzazione internazionale in Svezia, per poi allo scadere del visto essere rimandato indietro, e adesso oltre a tentare da mesi il ritorno in Europa, aiuta gli altri profughi e i volontari del campo. Le motivazioni di coloro che sono fuggiti dal proprio paese sono varie, da chi come Omran ha perso i genitori sotto le bombe a Mosul a chi come Aaresh ha lasciato il Kurdistan Iraniano per ragioni politiche «collaboravo con il Partito Democratico Curdo, come informatico mi occupavo di gestire un network per comunicare con altri gruppi curdi». Per passare il confine, raccontano in molti, qualcuno si affida a trafficanti locali che con tremila euro ti nascondono nel bagagliaio, senza però nessuna certezza di portarti a destinazione. Uros, un giornalista sloveno, spiega che negli ultimi mesi le richieste d'asilo in Slovenia sono drasticamente diminuite, nonostante gli arrivi siano continuamente aumentati a conferma che i respingimenti sarebbero avvenuti senza valutare i singoli casi e in mancanza di spiegazioni ufficiali da parte delle autorità.
Nel campo di Velika Kladuša il tempo per i rifugiati non scorre mai, è scandito soltanto dall'attività dei volontari e dalla speranza di buone notizie dall'esterno. Alcuni ragazzi pakistani hanno costruito una canna da pesca artigianale con una corda e una vaschetta di plastica, e provano ad adescare qualche pesce dal ponticello sul rio melmoso di fianco al campo. Mohammed raccoglie qualche provvista per il prossimo tentativo di sconfinare in Croazia «ci muoviamo generalmente in gruppi di 5-6 persone, quando arriviamo nei pressi delle frontiere ci dividiamo, si mangia una volta sola in tutto il giorno, a volte neppure quella».
La Commissione Europea all'inizio di questo mese aveva annunciato un pacchetto di 1,5 milioni di euro alla Bosnia per gestire il crescente afflusso di profughi nel paese, con questo finanziamento il governo di Sarajevo aveva in programma anche la costruzione di un centro d'accoglienza ufficiale nella città. Ma come ha riportato il ministro della sicurezza Dragan Mektic, la commissione avrebbe riesaminato il piano d'aiuti poiché la costruzione del centro sarebbe, per Bruxelles, troppo vicino alle proprie frontiere meridionali.
«Non sono nazionalista, come potrei esserlo? Ma amo questo paese unico al mondo», confessa Adis davanti ad una birra dopo una giornata di duro lavoro nel campo, «per secoli i suoi abitanti hanno convissuto con persone di culture e religioni diverse, e adesso stanno insegnando qualcosa al resto di un Europa che parla ancora di muri e confini».
Velika Kladusa, l'ultima frontiera della rotta balcanica
Testi a cura di Francesco M. Bassano
Foto a cura di Giacomo Sini
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