Il campo profughi di Bira dovrebbe accogliere 1500 persone, ma è sempre oltre i limiti della sua capienza, cinquecento o anche mille in più, a seconda dei giorni. O forse non dovrebbe accogliere nessuno. Perché una ex fabbrica di frigoriferi dove sono simmetricamente disposti container claustrofobici in cui dormono in dieci, qualcuno su brandine e gli altri a terra, non è un luogo adatto per accogliere la vita. Semmai la vita te la leva. È gestito dall’Iom (International Organization Migration) e le bandierine dell’Unione Europea sono affisse ovunque.
Ma quando ci entri nel cervello schizza una domanda, ma quale Europa? Ma qui l’Europa dove sta? Il Bira è solo un campo maschile. Per le famiglie l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) ne gestisce altri due in città, il Borici e il Sedra. Ci sono meno persone e dopo alcuni interventi di ristrutturazione i centri sono “un poco meglio”. Anche perché peggio non può andare. O così si spera dopo aver visitato Bihač.
Il comune sta al centro del Cantone di Una Sana, in Bosnia Erzegovina. Un Paese che la guerra non l’ha ancora dimenticata e della rabbia che si scatena dentro le persone quando la vita ti trasforma da uomo a profugo – visto che rifugiati di guerra lo sono stati pure i cittadini di questo cantone – invece che ricordarla loro l’hanno caricata di altra rabbia che sta lì pronta per esplodere contro i profughi di oggi. Ma la colpa non è loro. La convivenza non è una cosa facile. Soprattutto non è facile con giovani uomini che poco alla volta il sistema sta portando al livello di animali. Dal campo profughi di Bira esci con la puzza di piscio nelle narici.
La Rotta Balcanica è una rotta dimenticata. Non interessa all’Italia. Non fa il rumore mediatico dei barconi che attraversano il Mediterraneo. E quei profughi che si mettono in marcia e attraversano i confini di sei o sette Paesi prima di raggiungere l’Europa – quando e se ci riescono – sono marginali. Perché loro in Italia non vogliono restare. Convenzionalmente la rotta inizia in Grecia, fisicamente finisce in Italia, a Trieste. Ma il viaggio di chi fugge inizia molti chilometri prima per finire poi nel Nord Europa.
La prima Rotta Balcanica parte ufficialmente il 25 ottobre del 2015: Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria. Allora furono oltre 800mila i migranti, soprattutto siriani in fuga dalla guerra, che provarono a percorrerla. In molti arrivarono finalmente in Germania per chiedere l’asilo politico. Per l’Europa erano “troppi”. Così pochi mesi dopo, nel marzo del 2016, Bruxelles ha siglato un accordo con Ankara per limitarne l’arrivo. Ma i confini sono come un colabrodo quando a far partire le persone è la disperazione. E infatti i rifugiati in cerca di una nuova casa non smisero di provarci, solo cambiarono la strada. «Così dal 2018», spiega Silvia Maraone project coordinator di Ipsia (Istituto pace e sviluppo innovazione Acli), che ha un presidio nel campo profughi di Bira, «si sono venuti a creare altri due percorsi, il primo tra la Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia e l’altro tra Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia. Ma una volta arrivati in Bosnia si rimane bloccati».
La maggior parte dei profughi in Bosnia Erzegovina sono concentrati nel cantone di Una- Sana, al confine con la Croazia. Ce ne sono circa seimila – i numeri ufficiali non esistono – e sono concentrati nelle città di Bihač e Velika Kladusa.
Facciamo questo viaggio con Lorena, 67 anni, psicoterapeuta che vive a Trieste e suo marito Gian Andrea, 83 anni, professore di filosofia in pensione. Due attivisti che dal 2015 hanno messo in piedi un piccolo presidio medico all’esterno della Stazione di Trieste per offrire prima assistenza ai ragazzi che miracolosamente passavano il confine con la Croazia ma che sul corpo portavano i segni delle torture. «Abbiamo iniziato a medicargli i piedi. Erano tutti giovani e stanchi. Cercavamo di supportarli un po’ prima che ricominciassero il viaggio», racconta Lorena.
«Ma ad un certo punto hanno iniziato ad arrivarne troppi e più arrivavano più i segni di tortura sui loro copri erano evidenti. Il risultato dei “game” che fallivano anche 20 volte prima di riuscire a passare il confine. Così abbiamo deciso di andare a vedere cosa stava accadendo oltre in confine. Lorena e Gian Andrea sono due essere umani speciali. Questo è il loro diciannovesimo viaggio in Bosnia. Caricano la macchina di medicine, sacchi a pelo e scarpe. All’inizio agivano come singoli, poi sono iniziate ad arrivare un po’ donazioni e si sono costituiti ad ottobre dello scorso anno come associazione di volontariato: Linea d’Ombra odv.
«Ad ogni viaggio», dice Lorena, «non mi si leva dalla testa la faccia di Alì. Era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto lo scorso settembre a causa della disumanità a cui era stato destinato dalla polizia». Guida sempre Lorena.
«Io sono il braccio», sorride. «Gian Andrea è la mente pensante». La verità è che insieme con il loro fare instancabile ci mettono davanti al nostro “non fare” omertoso.
Ci sono dove nessuno c’è per ricordare a chi crede di essere dimenticato che invece non lo è. «Raccogliamo le donazioni e ogni mese e mezzo circa partiamo per la Bosnia e lì compriamo altre medicine, sacchi a pelo, scarpe: perché non bastano mai». Così come a Trieste, Lorena, quando è in Bosnia passa gran parte del tempo all’esterno dei campi profughi.
I ragazzi le si avvicinano e lei gli cura i piedi con una dolcezza che li destabilizza. Nessuno qui è più abituato ad essere trattato come una persona. E disinfetta le bolle che si sono formate sui loro corpi. La scabbia qui è endemica e questi ragazzi se li sta mangiando vivi. «E raccogliamo le loro storie», dice Gian Andrea. Ma queste sono tutte storie di dolore.
“Vado in game” è l’espressione che utilizzano i ragazzi ogni volta che tentano di passare il confine tra la Bosnia e la Croazia. «Qui imperversa l’industria dei passeur, gli “agenti”: come mettere a profitto la disperata speranza. C’è tutta una gerarchia di prezzi e di mezzi», dice Gian Andrea.
«Per la guida a piedi si chiede intorno ai 1.500 euro e via via a salire a seconda del servizio. I prezzi massimi per tutto il viaggio in auto da Velika Kladusa a Trieste dovrebbero aggirarsi sui 6.000 euro. Un numero elevato di minori egiziani vengono mandati dalle famiglie in Europa, pagando cifre alte, probabilmente per sfuggire al grave peggioramento delle condizioni di vita nel paese le cui istituzioni hanno massacrato migliaia di giovani. Questo fa alzare, in generale, i prezzi». Ma i più non hanno soldi, e “in game” ci vanno da soli. Camminano di notte dentro i boschi con il rischio di saltare sulle mine – ricordo di una guerra mai troppo lontana – e poi tornano indietro senza scarpe. Perché la polizia croata gli ruba pure quelle.
«Il viaggio in Bosnia», dice Gian Andrea, «ci porta, infatti, in un luogo fisicamente vicino ma psicologicamente lontano, lontanissimo per la maggior parte della gente tra cui viviamo. Questa lontananza invalicabile, anche per chi come noi si forza continuamente di valicarla, è frutto di una rimozione storico-psicologica implicita nella vita dei paesi – diciamo così – agiati: implicita perché riguarda i fondamenti culturali del cosiddetto Occidente, del suo potere, del benessere dei suoi abitanti, tanto più rivendicato quanto più sfuggente e difeso. Andare in Bosnia con passaporto dell’Unione Europea, spinge a un’altra riflessione, perché mostra uno dei molti aspetti del dispositivo confinario, anzi il più importante: lo chiamerei un dispositivo di filosofia politica, perché in esso si coglie la funzione profonda dello Stato che è quella di dare o togliere identità».
«Il dispositivo confinario ti chiede: chi sei? Che cosa fai? Perché vai e dove vai? E anche, implicitamente, quale è la tua religione; di più, quale è il senso della tua vita, ovvero se esso è conforme all’ordine statale. Il passaporto o la carta d’identità non sono dei semplici documenti burocratici ma toccano il cuore dell’essere sociale: senza un documento identitario un essere umano è esposto a qualunque arbitrio; la sua condizione umana è in discussione. I migranti della rotta balcanica sono un potente rivelatore storico».
Nel cantone di Una Sana non c’è spazio per tutti nei campi profughi ufficiali. E così quando pensi che non c’è limite al peggio poi entri in uno squat. Gli squat sono delle fabbriche abbandonate. Strutture fantasma, il ricordo che ha lasciato la guerra. I rifugiati che non trovano spazio nei campi ufficiali si accampano qui prima ti tentare il game, e qui ritornano perché il game, quasi sempre, fallisce. Muslin è pakistano ha 20 anni. Ci ha già provato otto volte. «La polizia croata», racconta, «mi ha trattato come un animale. Mi ha picchiato, rinchiuso, ha rubato il telefono. Le scarpe, lo zaino, il sacco a pelo. Ha bruciato tutto e sono ritornato indietro a piedi. Senza scarpe. Ma appena guariscono i miei piedi ci riprovo».
Negli squat non c’è niente. Solo la puzza di gomme bruciate per riscaldarsi d’inverno. I ragazzi vivono senza acqua. Raccattano il cibo come possono e aspettano che qualche attivista locale, quei pochi cittadini che non li odiano, gli portino qualcosa. In uno degli squat di Bihač, una ex fabbrica che si chiamava Kara Inamet, ci sono solo rovine. E una stanza che usano a turno tutti i rifugiati, la stanza della cacca.
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