Adozioni

«Mamma, tu in che pancia sei nata?»

di Sabina Pignataro

Trentasei anni fa Sara è stata abbandonata davanti a un orfanotrofio in Brasile. Mamma Anna e papà Giancarlo Anceschi l’hanno adottata quando era molto piccola. Oggi Sara è mamma di due bambini dalla carnagione chiara. Tempo fa, suo figlio che ha sette anni, le ha domandato: «Mamma, tu in che pancia sei nata?». E questo interrogativo è diventato il titolo di un libro che racconta l’adozione attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta in prima persona: una figlia. Spesso, commenta, «è come se noi adottati portassimo una targa cucita addosso per tutta la vita. Invece io credo che l’adozione sia una delle eventualità della vita, che segna la vita, ma non la definisce. Soprattutto non la connota necessariamente in modo negativo o problematico». Eppure, in un’Italia a tratti ancora molto razzista, c’è chi, vedendo Sara che gioca con i suoi due bambini dai capelli dorati le domandi se lei è la tata

Sara è nata a Salvador De Bahia, in Brasile, intorno al 25 aprile del 1984. La sua è una data di nascita ipotetica, perché nessuno sa realmente che giorno fosse. «Sono stata abbandonata su una panchina, avvolta in un asciugamano, davanti ad un orfanotrofio», racconta.
Poi a due mesi di vita è stata adottata da mamma Anna e papà Giancarlo Anceschi. «Sono loro i miei genitori», dice.

Negli anni Ottanta, in Italia, erano ancora poche le persone di etnia non europea e l’adozione non era così usuale come adesso. «Vivemmo episodi di razzismo e discriminazione, alcuni più divertenti, altri imbarazzanti», ricorda Sara. «È capitato che qualcuno domandasse ai miei genitori se io riuscissi a capirli o quale tipo ci cibo mangiassi».

A Torino Anna e Giancarlo «riempiono Sara d’amore» e a lei «non manca altro». È solo quando compie 23 anni, dopo aver scritto una tesi di laurea sull’adozione internazionale e aver incontrato una quarantina di famiglie adottive, che decide di tornare in Brasile.
«Il viaggio non fu semplice: a Salvador De Bahia mi sentivo una straniera, guardata, osservata come mai in Italia mi era successo», ricorda. Ma fu comunque un’esperienza positiva perché consentì a Sara di «riappacificarsi» con la figura della donna che l’aveva messo al mondo. «Quelle favelas informi mi fecero pensare alla grande opportunità che la vita mi aveva offerto attraverso l’adozione. Mi costruii, così, una specie di giustificazione e iniziai a credere che quella donna mi aveva abbandonato con la prospettiva di offrirmi possibilità migliori».


La laurea di Sara e il suo viaggio in Brasile

Eppure, confessa, «adesso che sono madre, mi chiedo come abbia potuto lasciarmi, dopo avermi sentita crescere nel suo grembo per nove mesi, dopo avermi partorita e presa tra le sue braccia. Sono domande che rimarranno per sempre senza risposta, con cui convivo serenamente grazie all’amore che da sempre mi circonda».

Nel 2012 Sara si sposa con Gianni. Quando sta per nascere il loro primo figlio, Mattia, il caso vuole che in sala parto ci sia un’infermiera nata a Salvador De Bahia, la quale, dopo aver saputo della loro storia di famiglia permette alla mamma di Sara di entrare in sala parto. «È stato un momento molto speciale: per me che stavo diventando mamma e per mia mamma che stava recuperando quella parte di percorso che la natura le aveva negato».

Insieme al piccolo Mattia Sara vive i primi momenti isolandosi dal resto del mondo. «Era come se, attraverso di lui, volessi vivere le emozioni e le sensazioni di accudimento e maternage che non avevo potuto sperimentare nei primissimi giorni della mia vita, quando ero da sola, in Brasile».

Per Sara la nascita del suo primogenito rappresenta il coronamento di un sogno atteso e immaginato fin da quando era piccola. «Giocavo spesso a mettermi i palloni sotto le maglie e poi mi coccolavo il pancione», racconta. «Mi immaginavo di avere un bambino con la pelle color cioccolato fondente, proprio come la mia. Probabilmente, era un sogno dovuto anche al fatto di ritrovarmi finalmente nei tratti di qualcuno che potesse assomigliarmi».

Invece, la vita, a volte, è bizzarra: oggi Sara è mamma di due bambini dai capelli dorati, Mattia e Sofia, con gli occhi chiari e la carnagione pallidissima. «Questo, però, non è un trauma. Le differenze mi confermano ancora una volta che, in questo nuovo passaggio generazionale, non è la somiglianza somatica a creare l’amore».

…credo che l’adozione sia una delle eventualità della vita, che segna la vita, ma non la definisce

Sara Anceschi

Capita certe volte che Mattia, che oggi ha 7 anni, le chieda: “Mamma, tu in che pancia sei nata?”. E questo interrogativo è diventato anche il titolo dell’omonimo libro (Casa Editrice Ets) che Sara ha voluto scrivere per parlare di adozione da un punto di vista poco considerato. «La letteratura sull’adozione è molto variegata e ben assortita», spiega. «Ci sono manuali scritti da esperti e molti diari scritti da genitori adottivi. Io invece volevo raccontarla attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta in prima persona, una figlia».

Spesso, commenta, «è come se noi adottati portassimo una targa cucita addosso per tutta la vita. Invece io credo che l’adozione sia una delle eventualità della vita, che segna la vita, ma non la definisce. Soprattutto non la connota necessariamente in modo negativo o problematico». Certo, aggiunge, «ci sono situazioni in cui l’adozione ha innescato una serie di dinamiche molto complesse, ma non è sempre così. Molti miei amici, adulti adottati, vivono una vita di grande serenità e non sentono di aver avuto difficoltà troppo speciali nel proprio percorso di crescita».

Ora che Sara è mamma di due bambini dalla pelle chiara, gli sguardi interrogativi e il bisbigliare delle persone sono frequenti. «Moltissime persone mi chiedono se Mattia è stato adottato e, quando rispondo che l’adottata sono io e lui è mio figlio biologico, alcuni rimangono stupiti dalla nostra diversità somatica». Una volta una signora, pensando che Sara fosse la tata, le ha detto «Certo che è proprio ricca la famiglia per cui lavori per permettersi una tata dalla nascita del bambino. E quando lei ha risposto seccata che non è la babysitter, ma la mamma di Mattia, la signora le ha detto: «Come è possibile che sia nato un bambino così biondo e chiaro da una come te?».

«Inizialmente ero contenta che Mattia e Sofia fossero piccoli e non capissero ciò che la gente diceva sulla nostra diversità. Ora sono cresciuta anch’io e non temo più che certi commenti possano ferirli», spiega. «Abbiamo sempre frequentato ambienti multiculturali e famiglie adottive, in modo che i nostri figli potessero rendersi conto che la nostra non è l’unica famiglia colorata al mondo», conclude Sara. «Fino ad ora loro non si sono posti nessun problema: io sono la loro mamma e, se anche fossi verde, viola o blu, questo non cambierebbe le cose».


Nell’immagine in apertura Sara con i suoi genitori oggi

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