È trascorso un anno esatto dall’invasione russa dell’Ucraina e il mondo si chiede tutt’oggi se la pace sia possibile e quale forma di resistenza adottare perché non siano dimenticati i diritti umani, già abbondantemente violati dal Governo di Putin. Una risposta è nell’attivismo, tanto in Ucraina quanto sotto dittatura russa. Gli attivisti in Russia rappresentano per il regime una spina nel fianco: lo scorso 25 gennaio il tribunale di Mosca ha approvato per esempio la richiesta del ministero della Giustizia di chiudere il Gruppo Helsinki Mosca, un’organizzazione per i diritti umani fondata nel 1976 ai tempi dell’Unione sovietica. Il contributo maggiore degli attivisti in Russia consiste in una contro-narrazione rispetto alle notizie diffuse dalla propaganda: la ong Call Russia per esempio, gestita da esuli russi e volontari lituani, nelle ultime settimane ha realizzato almeno 40 milioni di telefonate nelle case dei cittadini russi, tentando di sradicare le menzogne diffuse dai media nazionali. La repressione del dissenso è però un fenomeno che avviene ancor prima dello scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina e colpisce indistintamente attivisti, giornalisti, operatori umanitari, ricercatori, artisti e tutti coloro che si oppongono alla violazione dei diritti fondamentali.
Anche la musica degli Arkadiy Kots, band folk-punk formata da attivisti russi in prima linea contro Putin, svilisce il totalitarismo, perché celebra attraverso la memoria partigiana e i canti popolari l’opposizione al regime. Le canzoni degli Arkadiy Kots, oggi in esilio volontario in Italia grazie al supporto di una rete solidale di operatori culturali e accademici, appoggiano apertamente sindacalisti lavoratori, ambientalisti, movimenti lgbtqis2+ e prigionieri politici, tramandando la loro storia in tutta Europa e raccontando che un’altra Russia è possibile.
Come nascono gli Arkadiy Kots?
«La nostra band nasce circa 12 anni fa, ci trovavamo in una situazione molto simile a quella che stiamo vivendo, sotto dittatura. A un certo punto, mentre parlavamo del contributo dell’arte, della scienza e della filosofia in politica durante un seminario universitario a Nijny Novgorod, siamo stati violentemente arrestati dai militari russi e trattenuti con un gruppo di studenti e attivisti. Quell’evento è stato una miccia e ci ha posti di fronte alla domanda: cosa fare per impedire che la libertà di espressione non sia più minacciata?», racconta Nicolay, frontman del gruppo. Il cantante russo prima dello scoppio della guerra lavorava come ricercatore in Dacia ed è riuscito a fuggire, oggi è in attesa di protezione internazionale perché arrestato tante volte come attivista in Russia. Senza il riconoscimento del visto, rischia di essere mandato in prima fila in Russia al fronte, a combattere per il Paese contro cui ogni giorno si schiera nelle sue canzoni. Suo figlio ha 27 anni ed è in Turchia, anche lui non voleva partecipare alla guerra in Ucraina, così è riuscito a scappare a Istanbul, ma non ha il visto europeo e Nicolay non sa quando potrà rivederlo. A soffrire i controlli dell’Fsb, il servizio di sicurezza erede del Kgb sovietico, è soprattutto il mondo accademico. Secondo i dati di Ovd-Info, organizzazione russa indipendente fondata nel 2011 per la tutela dei diritti umani e per il supporto a prigionieri e perseguitati politici, che monitora la persecuzione dei dissidenti in Russia, dal 24 febbraio 2022 sono 19.586 i detenuti per le proteste antibelliche e 449 i sospettati e condannati per reati contro la guerra.
Come siete arrivati in Italia, quant’è stata importante la rete di solidarietà in Italia?
«Avevamo già dei progetti attivi qui in Italia, a livello nazionale e internazionale, permettendoci di trovare aiuti in ambito accademico, ma anche grazie alla rete della scena musicale. Per esempio, grazie al gruppo Assalti Frontali, pionieri del rap politico italiano e attivisti fin dai primi anni ‘90, abbiamo trovato un’ancora per esibirci anche in Italia. Inoltre i centri sociali del Paese, le case e gli edifici occupati ci hanno offerto un sistema di protezione e di connettere la nostra sofferenza con quella di altre persone. Ecco perché la nostra musica e il nostro impegno non sono rivolti solo ai connazionali russi, ma a tutte le persone che cercano di sopravvivere qui in Italia. Non siamo solo la voce dei russi».
I vostri familiari sono qui in Italia?
«La moglie di Kirill, membro del gruppo, è una documentarista che ha fatto film molto importanti sui movimenti contro Putin come Winter go away, presentato a Locarno Film Festival, e Songs of Abdul proiettato a Venezia, in questo periodo sta finendo il suo ultimo film che parla della situazione di un’artista russa esule, ora è in Belgio. Il loro secondo figlio è nato infatti 5 mesi fa proprio in Belgio». Il primo figlio della coppia invece è a Mosca, ha 19 anni e anche lui e sta cercando di scappare. Un altro componente degli Arkadiy Kots, Oleg ha invece i nonni in Russia, che dopo la Seconda Guerra Mondiale rivivono un’altra guerra.
Qual è l’impatto della vostra arte in Russia?
«Alcuni di noi ancor prima della formazione della band erano già studenti e attivisti, altri si dedicavano all’arte e alla poesia ma tutti condividevamo il progetto di politicizzare le nostre carriere, perciò abbiamo deciso di creare gli Arkadiy Kots: mentre l’arte e la poesia sono interessi più di nicchia, per chi ha generalmente tempo libero, la musica ha un potenziale collettivo e, attraverso la condivisione online o di specifiche tematiche, permette alle persone di sentirsi unite».
Perché avete scelto per il nome della vostra band il nome di un poeta russo?
«Arkady Kots fu un poeta nonché autore della traduzione russa dell'inno dell'Internazionale socialista nel XX secolo, ci rispecchiamo molto nel suo intento di tradurre l’esperienza internazionale e il periodo storico che stiamo vivendo in una dimensione russa. Inoltre, Arkady Kots contribuì a comporre canzoni popolari molto note in Russia e nell’Unione Sovietica, diventandone antesignano. Fuori dalla Russia però, cantiamo altre canzoni della resistenza, per esempio in Spagna cantiamo Ay Carmela, in Italia Bella ciao, così anche in Francia o in Bosnia riprendiamo canzoni tipiche. In Italia in particolare ci siamo dedicati molto a Modugno perché uno dei nostri album è sulle migrazioni dall’Asia Centrale verso la Russia. La canzone Amara terra mia di Modugno è una canzone che sentiamo molto nostra e condividiamo per il senso di nostalgia verso la propria terra, così come quello che i migranti si lasciano alle spalle»
Cos’è che i media internazionali non stanno raccontando, della Russia e dei russi, a proposito della guerra?
«Spesso i mezzi di informazione russi sostengono che la popolazione russa condivida le scelte imperialistiche del Governo e le pretese verso l’Ucraina, ma non è così. Oleg per esempio è un componente della band ma anche un sociologo invitato dalla Scuola Normale di Pisa, in questi anni ha realizzato uno studio intervistando i cittadini russi di diverse città e, insieme al suo team di ricerca, è riuscito a dimostrare che per la maggior parte i russi non solo non sono sufficientemente informati delle scelte politiche messe in atto dai soldati del Governo, ma nemmeno le supportano. Abbiamo già pubblicato questo studio un mese fa, ma lo stiamo comunque portando avanti nel tempo anche per verificare come cambia la percezione che i russi hanno della guerra e la loro opinione».
Vi siete mai confrontati con cittadini ucraini su quello che sta succedendo?
«In qualche modo le nostre relazioni con la rete di sociologi e attivisti ucraini sopravvivono a questa guerra e riusciamo a comunicare cercando un orizzonte comune per un progetto che ponga fine al conflitto tra i nostri due Paesi grazie al partecipazionismo politico. Per esempio grazie al lavoro congiunto in Salento con Free Home University e al Museo di Castelbuono di Palermo, realizzeremo una collezione di canzoni contro la guerra». “Free home university” è un progetto di ricerca del 2014 che da allora ha raccolto tantissimi attivisti e artisti da tutto il mondo per confrontarsi su arte e pedagogia. Ha permesso a esuli dai conflitti di tutta Europa di fare rete e condividere le reciproche esperienze, in questo modo gli Arkadiy Kots hanno avviato l’iniziativa Transeuropean Partizan Jam due anni fa, un esperimento di arte e pedagogia radicale che favorisce una comprensione collettiva della situazione geopolitica internazionale.
L’Italia sembra talvolta voler dimenticare la sua storia e la sua cultura, voi invece volete raccontarla e tramandarla.
«Ci sono molti aspetti che accomunano l’Italia e la Russia, la storia politica e quella della Resistenza per esempio. In Russia come in Italia, si sta cercando di dimenticare la propria storia e per noi è una sfida a lottare, cantare e tradurre in più. Usiamo la musica perché avvicina le persone malgrado la lingua, Kirill per esempio tradurrà Pier Paolo Pasolini per inciderci una canzone».
L’Italia e il mondo intero sembrano aver scoperto la situazione russa.
«Non è importante cosa non abbiamo fatto in questi anni come cittadini russi o come Unione Europea, ma capire cosa potremmo perdere in futuro. La Russia è vista come il Paese che sta cercando di ottenere quello che l’Europa ha raggiunto da tempo, sta dimostrando invece come il grande progresso del neoliberismo e dell’imperialismo potrebbe influenzare velocemente anche l’Europa. Ciò che ora rappresenta la Russia potrebbe rappresentare molto presto anche l’Europa. Ecco perché facciamo rete con altri paesi, per trovare quel filo comune tra la Russia e le ripercussioni che la dittatura potrebbe avere nel resto d’Europa, vorremmo evitare conseguenze così drammatiche».
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