Le liste d’attesa sempre più lunghe, anche per motivi gravi, costringono sempre più pazienti a rivolgersi a pagare di tasca propria per realizzare esami diagnostici, visite specialistiche e interventi chirurgici. Anche chi si rivolge al sistema sanitario nazionale paga spesso di tasca propria per moltissime cose e servizi.
Non solo le cure possono diventare un problema economico ma anche, viceversa, il contesto socioeconomico di un paziente oncologico incide nel suo percorso di cura, addirittura aumentando la percentuale di insuccesso, influenzando così gli esiti di malattia. Il fenomeno si chiama «tossicità finanziaria» e riguarda le spese accessorie, come il costo dei trasporti, dell’assistenza, di terapie comunque efficaci come psicologiche, fisioterapiche, nutrizionali, e anche per i trasporti verso l’ospedale e per la necessità di accompagnamenti, per non parlare dei costi indiretti come quelli dovuti alla perdita di ore di lavoro, che spesso fanno seguito a una diagnosi di cancro. La tossicità finanziaria ci dice che, a parità di gravità di malattia e di tipologia di cure, a fare la differenza nella guarigione e sopravvivenza sono i bisogni economico-sociali.
Il 22% dei pazienti oncologici soffre la tossicità finanziaria
Il primo a parlarne in Italia è stato Francesco Perrone, presidente eletto dell’Associazione italiana di oncologia medica – Aiom e direttore dell’Unità di sperimentazioni cliniche dell’Istituto nazionale tumori di Napoli: «Si è sempre pensato che la tossicità finanziaria riguardasse i paesi con un sistema sanitario non universalistico. È il caso degli Stati Uniti dove la sanità si basa sulle assicurazioni private. Invece, ci siamo accorti che anche nel nostro paese il fenomeno esiste, eccome, e che i pazienti che vanno incontro a tossicità finanziaria durante il trattamento corrono un rischio più alto di mortalità negli anni successivi». Il suo studio, il primo del genere in un paese europeo, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Annals of oncology, è stato condotto tra il 1999 e il 2015 su oltre 3.760 pazienti con tumore. Il risultato? Oltre un paziente su cinque, il 22,5%, presentava 'tossicità finanziaria' e un rischio di morte nei mesi e anni successivi del 20% più alto rispetto ai malati senza problemi economici.
Si è sempre pensato che la tossicità finanziaria riguardasse i Paesi con un sistema sanitario non universalistico. Invece, colpisce il 22,5% dei pazienti oncologici e causa in chi ne è colpito un incremento di morte del 20% rispetto ai malati senza problemi economici
Francesco Perrone, Istituto Pascale di Napoli
Il passo successivo è stata la creazione di uno strumento per la sua misurazione, specifico per la situazione sociale e sanitaria del nostro Paese, che è dotato di un sistema sanitario universalistico, per misurare la tossicità finanziaria nei pazienti mediante un «FT-score» (FT sta per financial toxicity). È un questionario con sette domande sul disagio economico, più altre nove finalizzate a individuarne i determinanti, «perché – commenta Perrone – misurare è il primo passo, ma non basta, noi dobbiamo modificare le cause che portano al fenomeno con l’obiettivo di farvi fronte». I primi risultati dello studio, il trial Proffit (che sta per Patient Reported Outcome for Fighting Financial Toxicity of cancer), che ha ricevuto il sostegno Fondazione Airc, sono stati pubblicati sulla rivista Bmj Open e attualmente è in corso la validazione esterna. «L’analisi è in corso e posso dire che le cause principali sono legate alla comunicazione e all’educazione, sta quindi a noi, il personale medico e sanitario, prevenire il fenomeno oppure contribuire a causarlo mettendo in atto determinati comportamenti che lo scatenano». I pazienti oncologici, che vedono il maggior numero di specialisti, hanno maggiori possibilità di essere presi in carico, spesso c’è un’equipe multidisciplinare e tante competenze nello stesso luogo. Non è così per tutti. «Per questo la comunicazione è così importante e per rilevanza viene messa ai primi posti dai pazienti nei nostri studi». Infine, quando si parla di costi di spostamento, «non sono solo i viaggi della speranza, situazione che potrebbe peggiorare in caso di autonomia differenziata delle Regioni, ma coinvolge anche la qualità delle strutture del territorio, con i pazienti che fanno chilometri per raggiungere i grandi centri clinici specializzati». Ora, Proffit è in corso di traduzione per la sua applicazione anche nel Regno Unito, perché «utile in tutti i contesti in cui esiste un sistema sanitario pubblico».
Sì a politiche contro la tossicità finanziaria
Una recente revisione della letteratura riguardante le donne con cancro al seno apparsa su Jama Network Open mostra che il fenomeno colpisce più duramente i paesi a basso e medio reddito (il 78.8%) ma anche una persona su tre nei paesi ricchi (35%): «in tutto il mondo queste pazienti sono a rischio di tossicità finanziaria; che le politiche progettate per compensare l'onere dei costi medici diretti, attraverso l'espansione della copertura sanitaria, e i costi diretti non medici e i costi indiretti, attraverso interventi come i trasporti e le strutture per l'infanzia, sono necessarie per migliorare la salute finanziaria dei pazienti vulnerabili con cancro al seno».
Il ruolo trainante dei Paesi a basso reddito
Di tossicità finanziaria si è occupata, in particolare in relazione ai paesi poveri, anche l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro Iarc di Lione. «Nonostante la tossicità finanziaria e l'accesso imperfetto al trattamento ottimale siano un problema ovunque, queste non sono in genere aree di ricerca prioritarie per la ricerca nei paesi ad alto reddito e i paesi a basso e medio reddito potrebbero aprire la strada a questo tipo di ricerca» scrivono gli autori su Nature.
La tossicità temporale riguarda tutti i pazienti ma soprattutto quelli in fase avanzata che dalle cure possono guadagnare un paio di mesi di vita e che devono poter decidere come spendere questo tempo
dal Journal of Clinical Oncology
Tossicità temporale
Infine, concetto più recente, che rientra sempre nell’ottica di allargare il quadro alla vita del paziente, c’è la tossicità temporale e fa riferimento al tempo speso a spostarsi verso i centri specializzati, le visite e le terapie come quelle infusionali che richiedono l’accesso al day hospital. Ne ha parlato, con un editoriale, il Journal of Clinical Oncology, evidenziando come questo sia un tema da affrontare già al momento di decidere la cura da intraprendere, che riguarda tutti i pazienti ma soprattutto quelli in fase avanzata che dalle cure possono guadagnare un paio di mesi di vita e che devono poter decidere come spendere questo tempo. Commenta Perrone, impegnato anche nella diffusione di una chiara comunicazione medico-paziente (per approfondire, leggere qui): «La premessa è la trasparenza e la chiarezza sulle aspettative prognostiche, dopodiché molto attiene all’organizzazione del sistema sanitario nazionale, spesso ancora incapace di garantire al paziente un contesto di normalità pre-diagnosi, ad esempio rispettando gli orari di visita, alimentando un fascicolo elettronico con cartelle cliniche realmente parlanti, facilitando la prenotazione dei controlli, così importante per la qualità della vita».
Basterebbe un po’ di buona volontà, una decente dotazione informatica e soprattutto la capacità di vedere l’ammalato come una persona umana, e non come uno che può aspettare perché tanto non ha più niente da perdere.
Sylvie Ménard, oncologa, in Si può curare (con Lisa Vozza)
Dall'altra parte della barricata
Francesco Perrone sa mettersi nei panni degli altri, lo fa di professione e per carattere. Ma non è così per tutti i clinici. Cosi, parlando di tossicità temporale e dignità del paziente, vale la pena riprendere le parole della grande oncologa dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano Int Sylvie Ménard. Nel suo libro Si può curare. La mia storia di oncologa malata di cancro, scritto con Lisa Vozza si legge: «Paziente è uno strano nome. In trentasette anni di lavoro in un Istituto oncologico in cui mi occupo di trovare cure ai pazienti non mi chiedo mai perché l’ammalato venga chiamato in questo modo. Poi passo dall’altra parte della barricata e capisco. Quando mi ammalo devo anzitutto armarmi di grande pazienza. Infatti durante tutto il mio percorso diagnostico terapeutico aspetto, aspetto e aspetto ancora. Aspetto per prendere un appuntamento, aspetto per prenotare un esame, aspetto per fare l’esame, aspetto per fare la visita, aspetto per avere il risultato dell’esame. All’inizio faccio molta fatica ad accettare di perdere tutto quel tempo, che per me è da sempre un bene scarso e prezioso. Poi mi abituo».
E ancora «Passare lunghe ore in ospedale ad aspettare non è come fare la fila per entrare al cinema o per prendere la seggiovia, sono ore molto stressanti in cui tutte le paure e tutti i pensieri più tristi e difficili si affollano nella mente, producendo tanta angoscia e solitudine in chi è ammalato» e in cui si incontrano molte altre persone, nelle quali inevitabilmente ci si immedesima («come sarò io fra pochi mesi»), sono ore molto «più istruttive e distruttive della descrizione degli effetti collaterali delle terapie e degli effetti devastanti della malattia letta sui libri».
Infine, «Far aspettare una persona anche un’intera giornata per fare un esame o una terapia è come considerare l’ammalato come uno già fuori dalla vita attiva: le urgenze della vita privata, del lavoro non hanno alcuna importanza all’interno di un ospedale. Basterebbe un po’ di buona volontà, una decente dotazione informatica e soprattutto la capacità di vedere l’ammalato come una persona umana, e non come uno che può aspettare perché tanto non ha più niente da perdere.».
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