«Ogni tanto riaffiorano i ricordi. La ricerca spasmodica della droga, e prima ancora dei soldi per assicurarmi la dose giornaliera. L’abbruttimento che aveva comportato la dipendenza, poi la paura di non farcela e finalmente una luce, quella di una comunità tra le più consolidate in Sardegna. Lì è iniziata la mia risalita. Oggi sono un uomo diverso, ho messo su famiglia, ho un lavoro e sono sereno. Ma non mi sento del tutto libero, al sicuro: so bene che basta poco per ricadere in tentazione. Faccio gli scongiuri e spero di non cascarci mai più». Antonio ha 44 anni. Originario di un paesino del Sulcis Iglesiente, vive a Cagliari. Ha avuto seri problemi di dipendenza tra i 16 e i 26 anni. Si concede alla nostra richiesta di intervista nella speranza che possa aiutare qualche giovane a uscirne sinché è in tempo.
«Quando torno indietro nel tempo con i ricordi, provo un senso di paura e di fallimento», racconta. «Ma anche la grande voglia di rinascere a vita nuova dopo aver toccato il fondo. In quegli anni assumevo soprattutto eroina, che davvero ti abbruttiva. Rispetto agli anni ’70 e ’80 c’era già una scelta più ampia, circolavano eroina, cocaina, hashish, marijuana, acidi, Lsd. Negli ultimi vent’anni le sostanze si sono moltiplicate: oggi trovi di tutto e dappertutto. C’è anche una maggiore diffusione nel territorio. Questo ha modificato pure l’iter di approccio alle sostanze e tutto ciò che ruota attorno a questo mondo. I ragazzi, le persone stesse che ne fanno uso, sono differenti: intanto si è abbassata l’età media di accesso alle droghe, e le dipendenze si sono allargate ad altri ambiti: giochi d’azzardo, alcolismo, videogiochi domestici. Ma c’è un altro aspetto che preoccupa: ora i dipendenti con problemi psichiatrici sono almeno l’80 per cento. Non che prima non ci fossero, ma i casi di doppia diagnosi sono molto più presenti che in passato».
«Io avevo cominciato un po’ a causa dei disagi legati alla mia famiglia e un po’ perché, con alcuni miei amici adolescenti, avevo seguito un gruppo di tossici più anziani, che avevano cominciato a farsi negli anni Ottanta. Ci sono cascati in tanti. Poi a 26 anni ho iniziato un percorso in una comunità di Casa Emmaus, durato poco meno di due anni. Sono entrato da sconfitto. Non posso dire di essere uscito da vincente, perché sarebbe eccessivo, però certamente con maggiore consapevolezza dei miei limiti e delle mie capacità. Questo sì. E ho scoperto una forza di volontà che prima reprimevo sempre, o la sostituivo con la droga. Sentivo la voglia di dimostrare a me stesso che potevo essere altro».
«Ai miei tempi dovevi per forza spostarti per andare nelle piazze di spaccio. Abitavo in un paese, dunque dovevo recarmi in città perché da noi non si trovava facilmente la droga, c’era un controllo sociale molto stretto. Adesso invece c’è Internet: conosco una persona, la cui dipendenza è nata nel periodo del Covid attraverso la rete, e con modiche cifre. Non deve neppure uscire di casa…».
«È cambiato il mondo, non solo quello delle dipendenze», sottolinea Antonio. «Oggi non sarebbe possibile rubare un’autoradio da una vettura, perché non sono più estraibili, ma forse non si avverte neppure tale necessità. Ti puoi fare un po’ di soldi molto più facilmente. E i reati non mi sembrano diminuiti. Forse è soltanto cambiata un po’ la tipologia. Questo magari alla gente comune, distratta da altro, può far credere che il problema sia meno grave. Va poi detto che una dose di eroina o di crack costa dai 5 ai 10 euro, un tempo in proporzione occorreva molto di più (in certe zone si arrivava a sfiorare le 100mila lire). Ma i tribunali sono pieni di processi per reati legati in qualche modo al mondo delle dipendenze e dello spaccio. E anche le carceri ospitano tantissimi detenuti con problemi di dipendenze, spesso con reati legati a violenze in contesti familiari: quando devi procurarti i soldi, puoi perdere completamente la testa».
Antonio tira un lungo respiro, poi fa una riflessione: «In passato, diciamo sino a una decina di anni fa, se ne parlava di più. Oggi c’è una percezione distorta perché sui giornali compaiono poche notizie legate allo spaccio, ai furti commessi da persone con dipendenze. Non vorrei che si stesse abbassando la guardia. Si parla di altro, ed è un pericolo. Perché i nostri figli vivono nelle nostre case, eppure hanno disturbi alimentari o legati all’uso distorto dei videogiochi. La socialità è cambiata in peggio. Un tempo eravamo diversi: per forza di cose dovevo uscire, anche solo per cercare la dose. Insomma, ero costretto a stare in mezzo alla gente. Ora vedo molti adolescenti che passano intere giornate rinchiusi a casa, ipnotizzati da cellulari o videogiochi».
«Ho un figlio piccolo, non so ancora se quando sarà adolescente gli racconterò la mia vicenda. Ma ho già iniziato a indirizzarlo verso un certo stile di vita e di comportamento. Da genitore sto cercando di avere con lui un atteggiamento diverso rispetto a quello che avevano avuto mio padre e mia madre con me: parlo di disponibilità, dialogo, attenzioni, affettuosità. Mi ritaglio spesso momenti tutti per noi. Quando ero bambino era impensabile, perché le generazioni precedenti erano state educate in maniera più rigida. Con questo non mi sento di colpevolizzare i miei genitori, in fondo i miei nonni erano figli della guerra e hanno vissuto situazioni davvero difficili, perciò con i figli sono stati piuttosto severi. Erano tempi molto diversi. Ogni generazione ha i suoi problemi. Ma nel mio piccolo cerco almeno di essere un genitore diverso. Non dico migliore, semplicemente diverso. Spero che basti».
Credits: foto Colin Davis (apertura) e Deniz Demirci su Unsplash
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