Ieri in Triennale c’è stato il vernissage de “La città fragile“, quarta tappa di un percorso espositivo sulla contemporaneità curato da Aldo Bonomi e che interseca, credo non casualmente, la tre giorni di dialoghi sulla riconciliazione intitolata, non brillantemente ma se ne fa già abuso, “Milano si-cura“. E’ una frontiera molto interessante dell’espressività, anche per soggetti non profit imprese sociali che sono chiamati a rinnovare la capacità di rappresentazione di se stessi e dei contesti / fenomeni su cui agiscono. Qualche tempo fa, al telefono, un imprenditore sociale mi diceva che il settore sta svoltando da forme narrative orali e scritte (e quanto si è scritto in questi anni, anche se soprattutto per se stessi!) verso medium più legati all’immagine. Io amplierei alla produzione artistica in generale, come porta d’accesso alla dimensione di senso – tutta concettuale e simbolica – che alimenta una produzione immateriale fatta di relazionalità. Sta di fatto che siamo ancora agli inizi. Perché nel caso di un’organizzazione coinvolta nell’esposizione milanesi siamo riusciti a produrre la didascalia, ma non a trovare l’immagine. C’è anche una buona dose di inefficienza in tutto questo, ma al fondo il problema rimane. Si potrebbe svicolare spacciando il muro bianco con didascalia come una performence d’arte contemporanea. Ma non è il caso.
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