Anche se i nomi non promettono nulla di buono, “make a change” e “Jobox” sono contenitori dove soggetti profit e non profit interagiscono intorno a progetti di imprenditorialità sociale. Di esperimenti simili già ce ne sono e certamente ce ne saranno altri, c’è da scommetterlo. Perché ormai l’impresa sociale – o il social business – ha superato gli argini dei suoi alvei originari e fa da catalizzatore per un sempre più ampio spettro di interessi, aspettative e bisogni. C’è anche un surplus “modaiolo” in tutto questo, ma basterà aspettare che passi, è solo questione di tempo. Al di là delle differenze c’è l’immancabile questione di fondo: la natura e la direzione degli scambi. Se si tratta di servizi reali – consulenza, accompagnamento, formazione in situazione, ecc. – non serve montare chissà quali strutture. Anche perché sono facilmente spiazzabili da altri fornitori. Se invece si tratta di joint ventures, produzioni in filiera, start-up innovative allora l’investimento è più giustificato. Ma richiede tempo (e risorse) per un amalgama che è prima di tutto culturale. Certo se le agghiaccianti foto di make a change sono un indicatore in tal senso, la strada da fare è ancora molta. Jobox invece la butta in video, ma anche qui si può fare di più.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.