Welfare

Il giro delle reti stanche: Reggio (nell’) Emilia

di Flaviano Zandonai

Oggi meglio a Reggio. Arrivo all’Università che è un ex caserma ristrutturata. Bella anche questa, ma non come quella di Modena. In pieno centro e ben attrezzata. Certo che in questi anni ne sono stati spesi di soldi per le Università, magari non per la ricerca ma per le sedi certamente. Ce ne sono fin troppe. Un pò come il sistema aeroportuale: due hub che non ci possiamo permettere e poi un sistema point to point che ci fa girare solo (o quasi) localmente e che non fa da piattaforma per l’estero. Detto questo penso che tutte queste sedi dovrebbero almeno riuscire a potenziare l’indotto locale. Decisamente non basta qualche copisteria, una pizza al taglio o un cineforum. Ci vorrebbe di più, ad esempio un piano di start-up di imprese innovative con l’università tutta (non solo le scienze hard) a fare da incubatore. Ma torniamo alle reti stanche. Stanche perché soffrono in forma acuta di “path dependency”, dipendenza da un percorso tracciato ormai più di un decennio anno fa – dalla legge 68 in poi – e che si ostinano a percorrere nonostante i policy maker siano spariti dall’orizzonte e il contesto socio economico sia radicalmente cambiato. Insomma sembra chiusa la “golden age” degli anni ’80 quando le reti locali pubblico / private fatte di operatori, volontari, beneficiari, familiari, ecc. si sono letteralmente inventate l’inserimento lavorativo come nuova forma d’inclusione delle persone con disabilità. Ora queste reti sono in piena crisi di maturità, magari ben oliate nei meccanismi di relazione e nell’architettura ma ferme in attesa di ordini – perdonate la metafora militaresca – che probabilmente non arriveranno mai. Un pò come quei soldati giapponesi che presidiavano le isole del pacifico a guerra finita con gli americani in spiaggia a surfare. Per uscirne serve una salutare iniezione di “lateralità”, qualche intervento, proposta, provocazione da parte dei non addetti ai lavori, o comunque di qualcuno ai margini che riesce più facilmente a togliersi dal solco, a giocarsi i propri margini di libertà, anche con qualche uscita estemporanea. Come oggi, quando uno psichiatra (di Piacenza però), preso atto dell’avvitamento generale propone come via di uscita di esplorare altre vie oltre al collocamento mirato, come il supported employment che nei paesi anglosassoni va forte e che si basa su un insieme di servizi erogati alla persona in situazione, all’interno di contesti lavorativi non protetti. Funzionerà? Non lo so, ma l’aula ha avuto un fremito salutare dopo questo intervento.

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