C’è una strana sensazione di sbigottimento mista a una malcelata soddisfazione nel veder crollare certi baluardi della produzione scientifica, soprattutto quelli che hanno fatto da guida, magari per tanto tempo, alle scelte politiche e gestionali. “Il cliente ha sempre ragione” è uno di questi, una roccaforte della teoria del management aziendale. Su Il Sole di oggi ci sono un paio di articoli interessanti a riguardo. Utili anche per imprese, come quelle sociali, che nel rapporto stretto con l’utente (che a volte è anche cliente, a volte in parte e a volte no) riconoscono un punto di forza del loro modello organizzativo. Tanto da far proprie soluzioni “estreme” come il prosumer (il cliente che è anche produttore del bene che consuma) o la multistakeholdership del sistema di governance dell’impresa dove il cliente, insieme a lavoratori, finanziatori, volontari ecc., interviene direttamente nei processi decisionali. Gli articoli, basati su casi aziendali standard, offrono spunti contrastanti che, al di là della retorica, fanno apparire le imprese sociali come degli innovatori e insieme dei parvenu. Il primo spunto rigurda il generale scetticismo per le analisi di costumer satisfaction che producono megabyte di dati ingestibili e presentazioni powerpoint dove latitano le indicazioni precise su “cosa vogliono” i clienti. Non sarà la scoperta dell’America ma il fatto che lo si ammetta candidamente dopo anni di investimenti milionari non è scontato. E non lo è neanche per le imprese sociali che, ultima ruota del carro, sono in piena infatuazione da questionari e procedure qualità. Altro spunto, più radicale, il cliente non ha sempre ragione, anzi spesso non sa bene cosa vuole. Quindi più che mettere in ordine di priorità preferenze esplicite – la domanda – meglio lavorare sul carattere spesso inconsapevole ed implicito che contraddistingue i bisogni, non fitrandoli attraverso procedure standard (questionari, brain storming, focus group) che ne appiattiscono i caratteri di specificità e di differenziazione. Anche su questo punto le imprese sociali si trovano in una strana posizione. Chiedono sempre più spesso le classiche analisi di mercato, ma hanno un’innata capacità di lavorare sui feedback “di prima mano” degli operatori impegnati nella produzione di servizi a bassissima standardizzazione ed elevata relazionalità e che quindi li pone in posizione privilegiata per “leggere” bisogni ed esigenze dei beneficiari. Sarebbe un caso molto interessante da approfondire, magari mettendolo a confronto con i camerieri di bar e ristoranti che i case study delle business school additano come esempio di osservazione e intervento sulle dimaniche dei bisogni.
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