Welfare

Addio Baumol

di Flaviano Zandonai

Sono (almeno) due i miti consolatori dell’impresa sociale. Il primo, molto di moda in quest’epoca, è il fatto di essere anticiclica. Quando il mercato va male c’è bisogno di più protezione sociale si dice, e quindi le imprese, come quelle sociali, specializzate nella produzione di beni di welfare (cura, coesione sociale, educazione, inclusione ecc.) dovrebbero prosperare o almeno non subire contraccolpi consistenti . Il secondo, più radicato, è il mito del basso o nullo impatto tecnologico sull’efficienza e sui costi dei processi produttivi, in quanto le imprese sociali gestiscono beni ad elevata personalizzazione e con una consistente componente relazionale che ben difficilmente si prestano a produzioni seriali e automatizzate. Dunque niente rischi di delocalizzazione e di crescita senza occupazione. Riprendendo lo stracitato esempio di Baumol, l’impresa sociale sarebbe più vicina all’ensable di musica classica che suona un pezzo di Mozart nello stesso tempo e in ogni tempo, piuttosto che al maestro orologiaio che nello stesso arco temporale produce molti più manufatti rispetto alle epoche passate grazie alla disponibilità di una migliore tecnologia. In realtà, per come stanno andando le cose entrambe i miti vacillano. Il primo perché la crisi è anche del modello di protezione sociale dominante, rispetto al quale molte realtà di impresa sociale sono diventate, volenti o nolenti, una componente strutturale. Certo queste imprese resistono meglio per ragioni che a volte, come nel caso delle banche italiane, sono vizi tramutatisi in virtù, ad esempio per la scarsa esposizione sui mercati internazionali dei beni e della finanza. Ma è una consolazione a breve termine, perché è il paradigma in fase critica, come dimostra l’insostenibilità dei nostri debiti sovrani (che sono in gran parte welfare).  Pure il secondo mito scricchiola e questa è una novità, almeno per me. Ha fatto da cortocircuito un bel post di first draft che già dal titolo – la badante e la domotica – incuriosisce e stimola. In effetti, a ben pensarci, quel che sembrava un baluardo mostra più di una crepa. E  a dimostrarlo sono ad esempio gli investimenti delle imprese sociali che sembrano andare sempre di più, ma è solo un dato a naso purtroppo, verso l’utilizzo di tecnologie per strutturare, qualificare e razionalizzare l’offerta di servizi sociali. Tecnologie peraltro che riguardano in quota crescente il trattamento dell’informazione e della conoscenza che scaturisce dalla relazione di servizio, la vera e propria “materia grigia” del servizio sociale. Non solo cyclette e ausili quindi, ma strumenti per cogliere il flusso di dati esperienziali e valutativi che staurisce in corso d’opera. Con effetti sull’efficienza (e dunque sui costi), ma anche sulle competenze degli operatori che sono chiamati a utilizzare sistemi gestionali complessi. A questo punto non mi sorprenderei se un team di ricercatori visionari fosse all’opera per “customizzare” un social network con gli elementi di socialità tipici di questo modello d’impresa. Per una produzione di welfare virtuale ed anche per inedite esperienze di e-governance dell’organizzazione.


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