Gente in gamba gli operatori sociali. Basta non si impegolino in norme quadro, piani strategici, tavoli, coordinamenti, spaccio di voucher sociali. Vere e proprie gabbie. Invece li trovi al massimo della forma quando stanno a casa loro, sul territorio. O in strutture dove sono obbligati a dare il meglio di sé intrecciando problemi e risorse. Oppure ancora abbarbicati a iniziative di sviluppo socio economico che vanno oltre l'”ambito”, cioè i servizi sociali e i confini amministrativi. Un dialogo recente – con uno di lungo corso – è avvenuto in un incubatore d’impresa che lui stesso ha contribuito a mettere in piedi. La domanda sorge spontanea: “Non è che c’è il rischio di fare danni?” No, tutt’altro la struttura è interessante per quello che fa, ma soprattutto “con chi”. Trattasi infatti di un incubatore territoriale di imprese. Non solo sociali, anzi. Si ospitano iniziative di vario tipo che sono l’esito di percorsi di sviluppo territoriale (a corto raggio), opportunamente sollecitati. Per questo l’incubatore si definisce giustamente “non profit”. Non per l’output, che potrebbe essere controproducente, considerando la classica sindrome della “riserva indiana”: incubatore non profit per imprese non profit. Il carattere non lucrativo è invece decisivo, e originale nel suo utilizzo, per quel che si fa a monte del processo di creazione d’impresa: ovvero mobilitare apporti, ricorse, idee, contributi che sostengano percorsi di autorganizzazione economica, in qualsiasi forma questi questi poi si realizzino. Purtroppo anche qui la normativa sull’impresa sociale si è dimostrata miope, perché a proposito di sostegno allo sviluppo d’impresa, si limita a citare “i servizi strumentali alle imprese sociali” in modo da consentire ai consorzi di cooperative sociali di assumere la nuova etichetta giuridica. Una prospettiva davvero limitata. Perché lo startup d’impresa muove da processi realmente non profit.
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