Welfare

Azionista di riferimento

di Flaviano Zandonai

Come giudichereste un azionista con in mano il 48% di una società? E’ quel che capita al terzo settore e alle imprese sociali per la loro partecipazione alla società  “welfare municipale”. E’ a maggioranza pubblica, ma la quota del privato sociale cresce sempre di più, stando ai dati dell’ultimo, interessante rapporto Auser. Sì, lo so, non si tratta in realtà di quote azionarie, ma dell’ammontare di spesa pubblica per la fornitura di servizi sociali che le municipalità riconoscono a cooperative sociali, associazioni, organizzazioni di volontariato. Un ammontare che segna una contrazione in termini assoluti (meno 2 miliardi) e che per di più si trova nel bel mezzo di un pesante processo di ristrutturazione legato all’attuazione del federalismo fiscale. Svelato l’arcano si può continuare con una lettura “societaria” dei dati. Perché se si considerano, come fa l’Auser, come quota per la gestione di servizi che gli enti locali sono peraltro costretti ad esternalizzare a causa di vincoli di bilancio e del blocco delle assunzioni, allora il quadro è a tinte fosche e soprattutto è davvero difficile ipotizzare un’inversione di tendenza. Tutt’al più ci si può barcamenare in un quadro di sostanziale precarietà, un pò come la (poca) occupazione creata dagli stessi enti locali (con buona pace di chi vede il solo terzo settore come veicolo di flessibilizzazione del mercato del lavoro). Se invece questa stessa quota di denaro viene vista come remunerazione del capitale apportato dalle organizzazioni sociali allora le cose cambiano. Un capitale fatto di competenze e legami fiduciari che consente di produrre non semplici prestazioni “in nome e per conto di”, ma beni relazionali che curano, educano, includono e contribuiscono, in generale e in maniera sostanziale, al miglioramento della qualità della vita, sia di chi ne fruisce direttamente, sia di chi ne beneficia indirettamente. Dovrebbe essere questa la sussidiarietà, non un semplice “valore aggiunto” a un welfare su base statale (o locale) che non c’è più (o ci sarà sempre di meno). O, se si preferisce, la quota stessa quota azionaria finanzia un’offerta di servizi che è aggiuntiva e non semplicemente sostitutiva rispetto a quella pubblica. Peraltro trattare da azionisti i soggetti di terzo settore e soprattutto le imprese sociali – un vecchio pallino della politica inglese da Blair a Cameron, dalla stakeholder alla big society – sarebbe utile non solo per riconoscere il loro apporto, ma anche le loro responsabilità. Perché si sa che le imprese, oltre a richiedere, possono apportare capitale e risorse proprie. Risorse di cui questo welfare malandato ha bisogno come l’aria.


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