Il nuovo capitalismo, quello ispirato all’innovazione sociale, corre. Si posiziona in tutti i settori dell’economia, ben oltre nicchie d’ambito o – orrore! – delle forme giuridiche. Il core business è sempre rappresentato da tecnologie accessibili che infrastrutturano la collaborazione in una molteplicità di applicazioni attraverso le onnipresenti startup. Si passa poi alla finanza che mira allo stesso obiettivo, con il sogno recondito di fare effetto leva e scalare l’innovazione sociale. L’ultimo passaggio in ordine di tempo riguarda un aspetto centrale (e ambivalente) dell’economia contemporanea, ovvero il brand. Il marchio ormai assume in se significati simbolici e rappresentativi che, di per sé, generano valore, anche economico, a volte in modo spropositato. Tanto che spesso i marchi sono oggetto di valutazioni e trattative controverse, “fuori mercato” verrebbe da dire se non fosse che poi la transazione avviene e quindi il mercato esiste eccome. Il web, da questo punto di vista, è una straordinaria fucina che sforna a velocità inaudita brand che nascono, crescono, si sgonfiano, muoiono. Che succede dunque a un brand che subisce il trattamento dell’innovazione sociale? Diventa un common. Un vero e proprio bene comune perché frutto di una collaborazione diretta – auspicabilmente corredata anche da un controllo formale e da qualche ristorno economico – da parte della comunità di persone che ne usufruiscono. Naturalmente solo un esperto di marketing – folgorato sulla via della social innovation – poteva pensare una cosa simile. E, come spesso capita nel settore, l’ha fatto con professionalità e capacità comunicativa, fondando, come ci dicono quei bene informati dei Ninja Marketing, un agenzia comunicativa ad hoc e, soprattutto, elaborando un pay off da oscar che fa: “Collaboration is the new Competition”. Non male, davvero. Chissà che ne pensano i creativi dell’impresa sociale in forma giuridica.
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