Welfare

Municipalizzata di tipo B

di Flaviano Zandonai

I servizi pubblici locali, soprattutto quelli “d’interesse generale” sono sotto osservazione ormai da tempo. E gli osservatori sono molti: ad iniziare dalla Commissione Europea che nel suo “single market act” – il documento a cui è affidato il rilancio del modello sociale di mercato che tiene insieme l’Unione – riconosce da una parte che nel campo dei servizi le liberalizzazioni sono ancora molto in ritardo persistendo grandi sacche di protezionismo nazionale e locale; dall’altra, che esistono servizi, quelli locali e d’interesse generale, che dovrebbero essere sottratti dal gioco della libera concorrenza. Periodicamente anche in Italia si solleva più di una voce critica rispetto all’attuale sistema di gestione di servizi essenziali (altra qualifica ricorrente) come acqua, energia, rifiuti e, in qualche caso, anche servizi sociali e sanitari. Generalmente si tratta delle cosiddette “municipalizzate”, cioè di imprese private a controllo pubblico: da piccole realtà fino a colossi quotati in borsa. Le municipalizzate sono ricche, anche di ambivalenze: agiscono spesso in regime di monopolio di fatto, ma d’altro canto le risorse che generano spesso vengono “ristornate” per finanziare altri servizi pubblici. Meglio quest’ultima soluzione o una gestione di luce e gas da parte di una multinazionale francese o russa che propone tariffe più basse ma non restituisce nulla al territorio? Il dibattito è aperto. Nel frattempo però, soprattutto nei contesti periferici o che, per ragioni diverse, hanno rinunciato a perseguire politiche di fusione tentati dalle economie di scala, prendono forma soggetti ibridi che meriterebbero di essere studiati con attenzione. Sono case histories interessanti perché propongono soluzioni gestionali che rispondono a una mission diversa dal percorso di progressiva aziendalizzazione che invece ha caratterizzato la maggior parte delle municipalizzate in epoca recente. Uno di questi ibridi riguarda la gestione di servizi pubblici locali nell’ambito di politiche di inclusione. Si segnalano, ad esempio, partnership strutturate tra aziende pubbliche e cooperative di tipo B che operano nel settore ambientale per concorrere ai bandi di gestione dei servizi pubblici locali dei comuni. E ulteriori casi di cooperative di inserimento lavorativo che gestiscono la filiera ambientale per conto di amministrazioni comunali che, guarda caso, sono anche socie della cooperativa stessa. E’ un modello residuale si dirà e forse anche fragile. Ma se lo si colloca all’interno di un orizzonte di “responsabilità sociale di territorio” (come sostengono quelli della rete Reves) che unisce sostenibilità ambientale e inclusione allora queste “municipalizzate senza saperlo” assumono ben altra consistenza e, se si permette il gioco di parole, danno più calore. Sì, quel calore che si oppone alla deriva tecnocratica delle municipalizzate che forse hanno dimenticato di essere nate come imprese collettive (quante di loro in origine erano cooperative o consorzi di produzione?) per produrre beni che hanno la stessa natura collettiva.


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