Le storie di reazione alla crisi hanno molti aspetti in comune che esasperano le scelte manageriali. “E’ arrivato il nuovo amministratore delegato” – raccontava un’amica – “e sta ribaltando tutto: ha tagliato un sacco di attività e ha investito su un nuovo prodotto”. Una rivoluzione in tre atti si potrebbe dire. Il primo: identificare nella produzione ciò che è centrale (“core”) e ciò che è periferico. Il secondo: introdurre innovazioni radicali nel core business e nel suo mercato di riferimento. Il terzo e ultimo: dismettere o esternalizzare tutto il resto. Un passaggio dove le incognite sono ben evidenti: la scelta dell’attività principale, la scala dei nuovi mercati, i tempi di esecuzione, i costi di investimento, le competenze necessarie e in esubero, la congiuntura economica e così via. Un aspetto interessante riguarda l’individuazione e le modalità di dismissione delle attività minori. Di solito fanno una brutta fine, relegate in una “bad company” che ha la missione di (s)vendere al miglior offerente. Ma non sempre è così. Ci sono compratori che, come i recicladores nelle grandi discariche nelle metropoli del sud del mondo, sono in grado di individuare nella spazzatura societaria asset buoni che possono essere valorizzati. E infatti la crisi ha generato, anche in ambito sociale, un ricco mercato di rami d’azienda salvati dalla crisi e innestati in imprese preesistenti. Ci sono poi casi di spin-off da parte di dipendenti (magari anche in esubero) che un pò per passione e un pò per mancanza di alternative aprono una nuova società. Nelle crisi dell’epoca recente – dagli anni ’70 in avanti – le cooperative hanno giocato un ruolo importante e altrettanto spesso sottovalutato. Salvo poi riscoprirle, in contesti distanti ma anche molto simili, grazie a docufilm come The Take di Naomi Klein che narra delle “empresas recuperadas” dagli operai argentini dopo il default del paese. E ora, da noi?
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