Pare che fra gli svariati emendamenti alla manovra finanziaria ci sia, oltre alle lacrime e al sangue, la riesumazione e il rilancio dell’ICE, l’Istituto nazionale per il Commercio con l’Estero. L’ente che ha il compito di sostenere l’esportazione del pluricitato (e temo logoro) “made in Italy” sugli altrettanto citati (e promettenti) “nuovi mercati”. Ma di quali beni si tratta? I classici output della produzione agricola, artigianale e industriale? Certamente, però si potrebbe allargare il campo oltre l’agroalimentare, la moda, le costruzioni, i macchinari, ecc. e considerare anche le tecnologie organizzative. Modelli imprenditoriali sui generis che certamente sono già presenti in ambito internazionale ma che in Italia hanno trovato maggiore diffusione e successo in svariati settori. Imprese sociali e cooperative ad esempio. Il tema non è nuovo. Periodicamente qualche dirigente, folgorato sulla via dell’internazionalizzazione, afferma: “dobbiamo vendere il nostro modello!”. Peccato che alle parole seguano pochi fatti e spesso anche mal gestiti. Fuori dall’Italia sono già passati alle vie di fatto. Proprio ieri si annunciava che il Regno Unito organizzerà delle “trade missions” (missioni commerciali) all’estero per vendere il loro modello di impresa sociale, guardando in particolare alle forme di finanziamento e utilizzando, in chiave di marketing, la Big Society. Prima tappa Stati Uniti. Sta a vedere che magari qualcuno li inviterà in Italia con tanto di red carpet per piazzarci l’impresa sociale. Un modello che, purtroppo solo a parole, amiamo definire “made in Italy”.
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