Il formato dell’inchiesta sta assumendo un ruolo sempre più rilevante nella produzione di conoscenza attivabile, capace di colmare il divario crescente con il linguaggio scientifico, sempre più specializzato e distante. L’inchiesta riemerge dal giornalismo tradizionale, il suo alveo originario, anche come oggetto “vintage” (le ristampe di Epoca ad esempio). Ma soprattutto si afferma come espressione di nuove modalità di rilevazione ed elaborazione che mischiano ricerca – azione e giornalismo dal basso, grazie anche al supporto, sempre più decisivo, di nuovi media che sono collaborativi e accessibili nella forma d’uso ed efficaci in sede analitica e di organizzazione dei contenuti. L’aspetto metodologico centrale dell’inchiesta è il suo carattere di artefatto, come mi è stato ben spiegato nel corso di un incontro qualche tempo fa. Chi fa un’inchiesta, in altri termini, si dota di un oggetto che utilizza in modo intenzionale per raggiungere un obiettivo cognitivamente prefigurato. E così facendo introduce un cambiamento sia nelle capacità proprie che nel contesto in cui interviene. Insomma l’inchiesta come artefatto genera innovazione. Ecco, forse sta proprio qui la ragione del successo di questo particolare “attrezzo conoscitivo”. L’ho visto all’opera di recente, peraltro da una posizione privilegiata perché si trattava di due inchieste sullo stesso evento. Ripensandoci dopo qualche tempo noto che la mia preferenza va all’inchiesta più “artefacta“, che ha fatto cioè la fatica di costruirsi un campo semantico (semplicissimo) e di andarsi a trovare autonomamente il contesto dove metterlo alla prova. Mentre chi ha fornito solo (o quasi) infrastruttura per l’organizzazione dei contenuti ha fatto più fatica a distillare contenuto.
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