Sempre la stessa nuova storia? Verrebbe da pensarlo guardando all’ennesimo rilancio di Plain Ink e della sua fondatrice Selene Biffi. Essendo parte in causa, in quanto a suo tempo invitai Selene al Workshop sull’impresa sociale di Riva del Garda, mi prendo qualche libertà valutativa riferita sia al caso in questione che al tema più generale delle case histories, le storie d’impresa in campo sociale. Dunque perché piace tanto Plain Ink? Ci sono tanti motivi, mi limito a elencarne qualcuno. In primo luogo il dato personale. C’è una che ci mette la faccia, in senso somatico, anagrafico e biografico. E racconta la sua “impresa”. Una cosa scontata in altri contesti, ma che invece manca clamorosamente nello storytelling italiano, dove prevalgono presentazioni istituzionali, attente ai dati strutturali, normativi, di performance e dove la parte identitaria (la carne e il sangue dell’impresa) diventa una fredda dichiarazione di mission o un estratto statutario. Poi c’è il carattere Do It Yourself dell’iniziativa, il fatto che ci si attiva per risolvere un problema che altri non vedono o non sanno affrontare. In questo caso la narrazione di Plain Ink rinverdisce del mito delle origini di molte imprese sociali affermate, oggi alle prese con accreditamenti, procedure, ecc. che inevitabilmente oscurano la radice dell’esperienza, il perché lo fai. Terzo aspetto di interesse la combinazione di elementi narrativi di un’esperienza micro (se parametrata agli indicatori standard delle imprese) che però alza l’asticella della sfida. In ballo c’è l’obiettivo di cambiare il mondo anche a costo di non essere capiti perché troppo innovativi. Mi chiedo quanti cooperatori sociali ed esponenti del terzo settore mainstream hanno la sana sfrontatezza di Selene nel proporre cambiamenti radicali partendo con 150 euro di capitale.
Detto questo la storia l’abbiamo già sentita, e più volte. Per carità su media diversi e quindi sarà stata apprezzata da pubblici diversi, ma quella è. Il problema naturalmente non è della storia in sé, ma riguarda piuttosto le forme di elaborazione e di diffusione di questi racconti, soprattutto in un settore come quello dell’imprenditoria sociale dove, mancando dati quantitativi seri, le case histories non sono solo prodotti informativi, ma spesso sopperiscono alle carenze informative in sede di policy making. Facendo autocritica in quanto cacciatore di storie mi propongo tre obiettivi. 1) Allargare l’orizzonte di osservazione, raccogliendo iniziative che permettano di mettere in luce gli elementi di differenziazione del settore (per ambito di attività, contesto socio economico, approccio, cultura ecc.). 2) Non farmi fagocitare dall’innovazione. Si apprende anche da casi standard che peraltro consentono di parametrare ciò che poi viene riconosciuto come innovativo. 3) Variare i livelli di analisi, per evitare, appunto, di raccontare la stessa storia allo stesso modo.
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