Cosa ce ne facciamo ora di tutta la conoscenza liberata da internet? Se la domanda apparisse troppo generica la si può declinare in due, più specifiche, questioni. Come è possibile proseguire nel processo, che con piglio rivoluzionario si potrebbe definire di collettivizzazione della produzione della risorsa conoscenza in forma di bene comune? E, allo stesso tempo, come è possibile garantire qualità dei contenuti e attribuzioni di responsabilità affinché non si avveri la profezia secondo cui internet ci rende più stupidi? Le risposte si possono trovare sia a monte che a valle di quello che, a tutti gli effetti, è il motore primo delle società umane che si definiscono “avanzate”. A valle ci sono le startup. Un’espressione ormai di uso ormai comune che in realtà si riferisce a fenomenologie specifiche, ovvero la creazione di imprese che capitalizzano i prodotti della conoscenza. Se poi si aggiunge che la conoscenza in oggetto riguarda le tecnologie dell’informazione e, ancor più nel dettaglio, quelle che lavorano sulla relazionalità del web, allora si arriva a definire un modo d’uso della conoscenza piuttosto circoscritto. Non a caso Università e centri di ricerca sono in prima linea, come Emerge Venture Lab realizzato dallo Skoll Centre for Social Entrepreneurship che sostiene i progetti imprenditoriali di studenti fornendo risorse economiche, ma soprattutto mentoring. A monte la situazione è più fluida, in quanto diverse istituzioni concorrono per individuare modelli e tecnologie a supporto di questi nuovi processi conoscitivi. Rubando una fortunata espressione a David Lane, tra i massimi esperti di innovazione e di teoria della complessità, si tratta di impalcature (scaffolds) grazie alle quali si mantiene, rinnova ed estende il carattere fluido delle interazioni sociali generatrici di conoscenza. L’approccio tradizionale ai commons affronta la questione guardando alla governance del sistema. Ma non va sottovalutato anche il metodo di lavoro. Da questo punto di vista, una delle esperienze più interessanti è quella della Open Knowledge Foundation (anche con ramificazione italiana) dove, appunto, sono i progetti a fare da impalcatura principale per attrarre e organizzare gli apporti di coloro che si candidano a partecipare. In altri casi, invece, si punta quasi esclusivamente sulle mirabilie di una piattaforma tecnologica “open” e/o sulla massa, spesso assai poco critica, della community degli utenti. Tutte dimensioni che però rimangono fini a se stesse se non c’è un oggetto che sfida le competenze e che induce a compiere azioni anche al limite, come “craccare” i supporti tecnologici per adattarli alle esigenze di lavoro e gestire i sistemi relazionali introducendo elementi gerarchici e di valutazione.
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