Welfare

La proprietà conta

di Flaviano Zandonai

Ownership matters. Ha proprio ragione l’economista William Hunton che ha realizzato un rapporto sulle forme proprietarie diffuse nel Regno Unito, evidenziando la monocoltura dell’impresa capitalistica e la scarsa attenzione per altre specie: cooperative, non profit e family businesses, le imprese familiari che sono l’architrave di sistemi economici come quello italiano. Il rapporto di Hunton, rilanciato da Linkiesta con il commento di Giulio Sapelli, è rilevante anche perché, tutto sommato, è un’istituzione tradizionale a richiedere un maggiore pluralismo dei modelli imprenditoriali. Non si tratta, in altri termini, dell’ennesimo appello del settore non profit e cooperativo dove si reclama una maggiore attenzione al proprio modo di fare impresa. Inoltre il pluralismo non viene affermato come semplice valore in sé, ma anche per i suoi effetti pratici: come riconosce lo stesso Hunton, rappresenta infatti un fattore di flessibilità rispetto ai bisogni e di resilienza rispetto alle trasformazioni in atto, migliorando così le performance, a vari livelli, dell’intera economia. Grazie anche a questo rapporto ritorna quindi al centro del dibattito la governance d’impresa, anche per quanto riguarda l’impresa sociale. Se è vero che negli ultimi anni, e in buona parte ancora oggi, l’enfasi del mondo anglosassone in tema di imprenditorialità sociale era tutta spostata sull’impatto economico, sociale, ambientale generato dalla produzione di beni e di servizi, è altrettanto evidente un ritorno di attenzione per le forme giuridiche – Cic, Benefit Corporation, ecc. – e per gli strumenti di governo. A tal proposito la Schwab Foundation for social entrepreneurship ha da poco pubblicato una interessante guida per coloro che intendono entrare a far parte di un qualche board di impresa sociale. Consigli molto semplici (“chiedetevi cosa ci andate a fare”, “controllate che non vi siano scheletri nell’armadio”, “non fatevi fagocitare dalla gestione quotidiana”, “è importante saper governare flussi diversificati di risorse” ecc.) ma, forse per questo, molto efficaci, soprattutto se si tratta di persone che provengono non dal settore sociale ma da contesti diversi. Una tipologia di directors, quell’ultima, che probabilmente sarà destinata a crescere molto nei prossimi anni, soprattutto se si tratta di imprese sociali che puntano per davvero sull’allargamento e la diversificazione dei loro portatori di interessi, non limitandosi a forme di coinvolgimento “leggere” come invitarli alla festa annuale o inviare loro il bilancio sociale. Tanto per essere espliciti: questi consiglieri potrebbero essere i rappresentanti di quei fondi d’investimento sociale sui quali la nuova Social Business Initiative della Commissione Europea intende puntare nei prossimi anni. Forse questa guida dovrebbe essere tradotta. Con qualche aggiustamento potrebbe funzionare benissimo non solo per le imprese sociali made in UK, ma anche per le care, vecchie cooperative sociali italiane.


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