Le imprese comunitarie rappresentano una delle principali realizzazioni dell’innovazione sociale. Un fenomeno che oggi rimerge per effetto della crisi: i tagli alla spesa pubblica, soprattutto a livello locale e sul welfare, spingono i cittadini ad autorganizzarsi valorizzando al meglio risorse, soprattutto di tipo donativo, diverse dai trasferimenti e dai mercati regolati pubblici. E’ una narrazione ancora incompleta quella sulle imprese di comunità, soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche degli ecosistemi sociali da cui scaturiscono. E la mancata (o parziale) conoscenza degli ecosistemi impedisce di elaborare uno schema teorico e di policy in grado di svelare in cosa consiste la loro ricchezza e il loro contributo all’innovazione. Lo ricordava Elinor Ostrom nella sua ultima lectio rivelando il suo interesse per lo studio della crescita degli alberi così da comprendere la pluralità delle forme di governance dei beni comuni ambientali. Nel pluriverso dei modelli di impresa di comunità le cooperative sociali occupano una posizione di rilievo. Nascono sulla base di un progetto politico – culturale e normativo dove “l’interesse per la comunità” è esplicitato come elemento centrale della missione d’impresa. Più complicato è invece rilevare lo stesso orientamento come asset imprenditoriale nei processi produttivi. Per molte di queste imprese la comunità è rimasta una declamazione retorica ed è molto poco praticato, ad esempio, il coinvolgimento dei beneficiari delle attività e dei servizi in veste di produttori, o financo di semplici stakeholders “informati dei fatti”. Ma per un’altra parte della cooperazione sociale, la comunità è sempre più al centro dell’interesse strategico per due ragioni diverse e insieme inestricabili: da una parte l’esigenza di migliorare l’efficacia sociale rispetto a bisogni la cui origine e soluzione risiede proprio nei tessuti comunitari; dall’altra reinventare la sostenibilità del proprio modello di business intercettando risorse di origine comunitaria che non possono sostituire quelle tradizionali – se non al prezzo di un sostanziale downgrade economico e occupazionale – ma che certamente consentono di realizzare iniziative a elevato “valore aggiunto sociale”. Insomma con le risorse della comunità non si coprono, o non del tutto, i buchi del welfare istituzionale, anche perché si tratta di capitoli di spesa pubblica residuali in termini assoluti (pochi decimali di Pil), rispetto ai quali anche un paese con i conti in dissesto come l’Italia può permettersi margini di manovra per allocare meglio le risorse. La cooperazione sociale dimostra quindi che, fuor di retorica, la comunità conta e può rappresentare un importante sostegno per il rilancio del settore. Serve però un’agenda di politiche, magari dai contenuti non così trendy come l’agenda dell’economia digitale, ma sicuramente in grado di sostenere esperienze già attive all’interno di un quadro unitario di progettualità e di risorse centrato a livello nazionale, ma con più di un riferimento alle tante iniziative internazionali. Sì perché l’impresa di comunità è un fenomeno globale e trasversale ai sistemi socioeconomici, normativi e politico culturali.
Quali i punti qualificanti di una community agenda? Di seguito alcune suggestioni raccolte nelle ultime settimane in svariati incontri sul tema.
– Mix di startup e riconversione: si tratta sia di processi di cambiamento nell’ambito della cooperazione sociale e insieme di nuovi modelli di impresa comunitaria come le cooperative di comunità sostenute da Legacoop che ibridano produzione e consumo.
– Investire soprattutto nell’accompagnamento ai processi: i bisogni guidano lo sviluppo di queste iniziative e quindi vanno assecondati attraverso “servizi reali” più che finanziamenti diretti.
– In un impresa di comunità conta più dove stai rispetto a quello che fai. Però alcune attività, come il turismo, sono particolarmente rilevanti perché valorizzano le peculiarità locali e creano economie esterne.
– Risolvere le ambivalenze del rapporto con la Pubblica Amministrazione che può giocare un ruolo rilevante nel promuovere queste iniziative ma, come spesso capita, tende a fagocitarle per esigenze specifiche (ad esempio la creazione di occupazione) perdendo di vista l’obiettivo generale.
– La redazione dei contratti per l’affidamento in uso e gestione a imprese comunitarie mette in crisi l’armamentario fin qui in voga (ad esempio le gare d’appalto), tanto che spesso si è costretti ad operare in situazioni border line dal punto di vista amministrativo. Serve una “deregolamentazione comunitaria” sul modello Big Society.
– La riconversione di beni e proprietà immobiliari in asset comunitari è forse la realizzazione più rilevante del modello “industriale” delle imprese di comunità.
– Le comunità sono anche all’interno delle imprese, soprattutto in quelle collettive come le cooperative. Ci sono iniziative interessanti per sostenere comunità interne (gruppi di acquisto, progettualità che svelano i talenti creando fidelizzazione e adesione al progetto d’impresa, ecc.).
– Nelle imprese di comunità più che l’obiettivo conta l’effetto generato e quindi assumo rilevanza i sistemi di misurazione d’impatto (ad ampio raggio).
– Solitamente del lavoro di comunità si enfatizza il carattere bottom up. In realtà anche le azioni comunitarie “verticali”, legate ad attività di programmazione e di finanziamento che transitano in senso top down giocano un ruolo spesso rilevante (anche se relegato nel retroscena).
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