Le partite si vincono a centrocampo. Non so se é un dogma o un’ipotesi empiricamente dimostrata, ma comunque faccio mia questa massima calcistica trasferendola al campo, meno eccitante, delle politiche e misure di sviluppo per l’impresa sociale. Da una parte la domanda (espressa da queste imprese) e dall’altra l’offerta (soprattutto di finanza specializzata). E in mezzo, per l’appunto, chi intermedia, chi fa incontrare progetti di investimento e di innovazione con chi é intenzionato a sostenerli.
Gli schieramenti mediani sono due. Entrambi, per ragioni diverse, non in splendida forma. Da una parte agenzie e reti costituite dalle imprese sociali come i consorzi. Dall’altra società di consulenza e altri organismi promossi, direttamente o indirettamente, dagli apportatori di risorse. Le prime ben consolidate e competenti, ma nel pieno di processi di cambiamento organizzativo che le stanno trasformando da strutture di supporto ad access point per la fruizione di servizi integrati in forma di beni comuni (spesso gestendoli direttamente). Un passaggio di non poco conto e che si protrae ormai da molto (troppo?) tempo. Le seconde sono, nella gran parte dei casi, startup oppure organizzazioni che si stanno posizionando in un settore che si scopre essere sempre meno marginale.
Ne parlavo qualche tempo fa proprio con una startup di consulenti. Mi chiedevano quali sono le priorità per le imprese sociali in termini di accompagnamento, considerando anche il loro bagaglio esperienziale di origine for profit. Continuando con le metafore calcistiche mi sono salvato in corner indicando tre possibili aree di azione (e di business). 1) Efficientamento: molte imprese sociali sono alle prese con la loro spending review come parte integrante della strategia di resilienza. Non so quanto durerà visto il protrarsi della crisi, ma credo ci sia spazio per ulteriori miglioramenti sul fronte dell’efficienza, e non necessariamente guidati dalla sola necessità di risparmiare risorse, ma anche, ad esempio, di abbassare i prezzi per “l’utente finale” (che sempre più spesso é cliente pagante). 2) Diventare grandi: é vero che la produzione delle imprese sociali é localizzata e specifica e quindi si presta poco a essere scalabile (se non a prezzo di standardizzazioni), però é innegabile che la massa critica (economica e forse anche sociale) necessaria per garantire la sostenibilità del progetto imprenditoriale si sposta verso l’alto. Quindi servono strumenti e modelli per realizzare e gestire un maggiore dimensionamento, anche allo scopo di garantire maggiore copertura con l’offerta di servizi. Copertura che é la vera sfida del welfare attuale e che ormai precede quella della qualità. 3) Innovare (poteva non esserci?). Mi sono ben guardato dall’indicare oggetti o processi specifici dell’innovazione nell’impresa sociale, non ne sono capace. Piuttosto lavorerei su un aspetto tanto scontato quanto tralasciato, ovvero l’innovare cooperando all’interno di reti. Ad esempio network di imprese e centri di ricerca. Mi sembra, infatti, che ci sia molto da fare su questo fronte. Non solo per quanto riguarda l’imprenditoria sociale. Per conferma basta guardarsi i dati Eurostat sull’innovazione nelle imprese europee. Quel che più colpisce é il numero esiguo di imprese che fanno innovazione grazie a partnership e joint ventures. E indovinate un pò di chi é la peggiore performance europea…
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.