Ormai è chiaro. Uno dei punti di vista più rilevanti per leggere la dinamica attuale e futura dell’impresa sociale – un comparto dalle grandi potenzialità, ma anche dai consistenti blocchi allo sviluppo – è rappresentato dalla finanza. Sul lato dell’offerta, infatti, si sta articolando un ecosistema di attori sempre più vasto e articolato: istituti di credito specializzati (dalla pioniera Banca Etica a Banca Prossima, il sistema delle Bcc, Universo non profit di Unicredit, UBI Comunità ecc), venture capitalist, business angel, fino al microcredito. Non va inoltre dimenticato il percorso di rinnovamento dei soggetti filantropici, in particolare fondazioni (bancarie e non) che oltre ai contributi economici sostengono iniziative sul fronte finanziario.
C’è però un problema, recentemente sollevato da un articolo di Giovanna Melandri sul giornale on line Che Futuro! nella sua veste di presidente della Fondazione Uman, un nuovo importante player del filantrocapitalismo: l’impresa sociale non rischia. Il problema non è nuovo e non è solo italiano, come ricorda peraltro la stessa Melandri citando un post del chairman del Big Society Capital inglese. Ma anche i dati parlano chiaro: citando l’indagine del rapporto Iris Network poco meno della metà delle imprese sociali italiane ha effettuato investimenti nel biennio 2010/2011 e, fra chi ha investito, le risorse economiche sono state raccolte autofinanziandosi (70%), ignorando quindi i prodotti di finanza specializzata.
Si profila all’orizzonte un clamoroso mismatch? Se sì, come può essere risolto? In primo luogo rafforzando l’ancora debole sistema di servizi di accompagnamento con l’obiettivo di far incontrare in una logica di efficienza domanda e offerta di risorse finanziarie. In secondo luogo è necessario un cambio a livello culturale da entrambe le parti. Certamente le imprese sociali, in quanto imprese, sono chiamare a migliorare la loro capacità di assunzione e gestione del rischio. Ma è altrettanto vero che gli attori finanziari, se sono autenticamente orientati in senso sociale, dovrebbero meglio cogliere le peculiarità di chi intraprende in questo campo, considerando in particolare che il sistema rischi e benefici va commisurato non solo rispetto a una ristretta compagine imprenditoriale, ma a un più vasto campo di stakeholder tra i quali persone, famiglie e comunità che, va ribadito, spesso vivono situazioni di disagio e fragilità sociale. Evitando quindi che siano anche questi soggetti a doversi accollare, anche indirettamente, il prezzo di un rischio assunto in modo troppo disinvolto stante la necessità di impiegare risorse.
Lo dice bene questa lettera a un giovane imprenditore sociale, dove l’autore non va per il sottile: the poor are not the raw material for your salvation, i poveri non sono la materia prima per la tua salvezza, riprendendo l’appello di “ripartire dagli ultimi” della teologia della liberazione. Si può essere d’accordo o meno sui toni dell’appello e sui riferimenti culturali. Ma una cosa è certa: in un’epoca in cui tutti affermano di voler essere user centered, di considereare cioè beneficiari e clienti come elemento di centralità della mission e dei processi produttivi, l’impresa sociale è chiamata a riaffermare questo principio. Anche nel prendersi i rischi.
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