Liberare non profit e impresa sociale per destatalizzare la società. Messa in questo modo la questione della distribuzione degli utili e di altre possibili modifiche della legge sull’impresa sociale acquisisce ben altro interesse. Altro che scontro tra scuole scientifiche e di pensiero! Grazie quindi al professor Capaldo che ribadendo questa sua posizione ben nota in modo così semplice e radicale ha riportato al posto giusto un dibattito che altrimenti rischia seriamente di incartarsi su tecnicismi autoreferenziali.
E il posto giusto è la politica, proprio come accadrà fra qualche giorno a Bologna con il referendum sui contributi alle scuole private. Come sostiene Zamagni sulle colonne di questo giornale, il referendum sarà un importante crocevia per capire se esiste, ed eventualmente quanto è forte, una cultura politica che crede in una funzione pubblica esercitata da una pluralità di soggetti, non solo da amministrazioni e corpi elettivi dello Stato. E sarà interessante verificare quanto il non profit saprà nei fatti contribuire ad incarnare questa politica come nel disegno di Capaldo.
Posso dirlo? Ho qualche dubbio, guardando sia all’interno del settore, sia alla più ampia pubblica opinione. Sia dentro che fuori prevale infatti una cultura che identifica nello Stato l’unico garante dell’interesse generale, considerando la definizione delle politiche e pure la realizzazione degli interventi. A sostegno di questa posizione non ci sono solo maître à penser e forze politiche, ma sondaggi sulla public opinion che non sono dati da smentire, ma dati su cui lavorare come fanno, e bene, quelli che voteranno B al referendum. Stessi riscontri sulla cultura non profit che più che distintiva è in realtà derivativa di quella dello Stato soprattutto, guarda caso, tra le organizzazioni lucrative impegnate nella fornitura di beni e di servizi per la PA.
Ma non c’è solo Bologna. Nel senso che la destatalizzazione non è l’unico fronte di azione. Nel campo dell’innovazione sociale, infatti, molte realizzazioni e le politiche che le guidano sono sotto il controllo di grandi burocrazie (“il mostro buono di Bruxelles“) e soprattutto dell’economia di mercato, in particolare della finanza. Un bel post segnalatomi da Ivana Pais descrive in modo altrettanto semplice ed efficace la situazione: importanti pezzi della peer economy sono di proprietà di imprese di venture capital che hanno investito molte risorse economiche su queste piattaforme, aspettandosi naturalmente di generare profitti. Niente di male in questo, basta sia chiaro – sostiene giustamente l’autrice – che queste risorse saranno distribuite tra un numero esiguo di investitori. Ecco quindi uno spazio da conquistare per organizzazioni sociali, come le cooperative, che fanno sharing non solo con i beni e i servizi, ma anche con la governance e i profitti. In questo caso la questione, più che culturale, è performativa, legata cioè alla generazione di impatti sociali rendicontabili anche sul fronte della gestione dell’impresa. Ma la sostanza della posta in gioco non cambia.
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