Non c’è niente da fare: le classifiche, o le classificazioni, piacciono sempre molto. Che si tratti dei dischi da portare sull’isola deserta (problema peraltro risolto dalla liquefazione dei supporti), degli innovatori sociali under 35 o delle scuole sull’impresa sociale poco cambia: la discussione si apre in merito a chi c’è (e, come diceva il guru Signorini, chi non c’è s’inc***a) e ai criteri di valutazione (con la tipica reazione: “non ci riconosciamo in nessuno di questi”). Però se ne parla, questo è certo e i giornalisti, compresi quelli di Vita, ben conoscono il meccanismo.
Nel caso degli innovatori si è acceso un confronto che in parte è venuto a galla grazie alla lettera inviata da Alberto Masetti Zannini e prontamente trasformata in articolo. Segno che quella classifica fa anche un po’ da termometro delle fibrillazioni che agitano l’ecosistema italiano dell’innovazione sociale. Un ecosistema ancora in buona parte fluido e sempre più affollato: accanto ai pionieri, new entries e, inevitabilmente, qualche parvenu.
Ma il vero dato, quel che più colpisce, è che nella classifica latitano (ed è quasi un eufemismo) i giovani innovatori provenienti dalle organizzazioni più consolidate del terzo settore e dell’impresa sociale. E la cosa non sembra aver più di tanto scosso l’ambiente nonostante a promuovere il sondaggio sia stato il giornale di riferimento del non profit italiano che non può certo essere accusato di scarsa conoscenza. Dunque niente innovatori? Allora è vero che una volta istituzionalizzate, le organizzazioni non sono più in grado di generare cambiamento sistemico? La risposta è gravida di conseguenze perché se così fosse significherebbe che per le politiche di innovazione c’è una sola strada da battere: la creazione di nuove genie d’impresa che incorporino l’innovazione come driver di sviluppo. Tutto sommato quel che è accaduto con le startup innovative, molto orientate su materie di rilevanza sociale, ma poco propense – anche per ragioni tecniche – ad assumere vesti giuridiche esplicitamente sociali come la cooperativa.
In realtà le cose non stanno in questo modo perché a determinate condizioni le organizzazioni sono in grado di rigenerare innovazione entro nuovi cicli di vita (spesso incentivati da fattori di criticità interna e di contesto che proprio non mancano in questo periodo). Meglio quindi percorre strade diverse per sostenere l’innovazione, magari lavorando sulle convergenze tra innovazione per start-up e innovazione per cambiamento organizzativo. A mo’ di esempio si può guardare a questa iniziativa di Confindustria: al di là del nome bruttissimo e del processo un pò troppo ingegnerizzato, è interessante l’intento di creare un matching diretto tra PMI industriali e nuove imprese nate per essere innovative. Perché si sa che uno dei percorsi più fecondi di cambiamento avviene per infusione. Nel passato recente dell’impresa sociale l’infusione ha riguardato soprattutto le pratiche manageriali (certificazioni, modelli di gestione, sistemi di rendicontazione, ecc.). Oggi è il tempo di infondere, assieme a nuovi prodotti, anche una nuova cultura dell’innovazione e dell’intrapresa che magari è una “cellula dorminente” dell’organizzazione. Basterebbe una piattaforma e molto lavoro di networking. Funzionerebbe secondo me. Anche in direzione contraria, ovvero per aumentare la massa critica di iniziative di innovazione sociale che – scorrendo la classifica di Vita – sono in buona parte ancora in fase embrionale.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.