Welfare

Comunità resilienti

di Flaviano Zandonai

E’ successo ancora una volta. E succederà ancora. Le cause possono essere naturali o per mano dell’uomo, ma la vita di una comunità territoriale è segnata, periodicamente, da catastrofi piccole o grandi. E lo sarà sempre più, se non altro perché la popolazione cresce e si concentra in grandi agglomerati urbani che sono concentrati di opportunità di sviluppo, ma anche reti molto fragili, esposti a rischi ambientali e sociali sempre più marcati e imprevedibili.

Di fronte a questi accadimenti – dai terremoti all’ultima inondazione in Sardegna – la litania è sempre la stessa: occorre investire di più nella prevenzione intendendo quasi sempre le infrastrutture fisiche: dislocazione e modalità costruttive degli edifici, dei collegamenti stradali, dei sistemi informativi, ecc. Rimane sullo sfondo, un po’ come dato per scontato, un altro fattore fin qui scarsamente considerato nelle politiche di “messa in sicurezza” dei territori, ovvero la resilienza dei tessuti comunitari. Significa, in altre parole, la capacità delle comunità di ritrovare un nuovo equilibrio a seguito di uno shock subito, consentendo di ripartire proseguendo il percorso o, più spesso, aprendo un nuovo ciclo di sviluppo. Un esempio su tutti: il “com’era, dov’era” che ha fondato la resilienza delle comunità friulane colpite dal terremoto del 1976.

Il tema resilienza è così all’ordine del giorno che se ne occupano sia dall’alto che dal basso. Nel primo caso grandi soggetti filantropici come la fondazione Rockefeller che lancia un piano (con tanto di call) sulle “città resilienti”. Nel caso dell’azione dal basso, invece, non si può non notare come il fulcro del movimento transition town sia rappresentato proprio dalla resilienza delle comunità.

Una prospettiva che sfida i contesti comunitari su due fronti. Il primo è quello dell’inevitabile declino della società civile come sistema istituzionale portante delle società occidentali come traspare, ad esempio, nell’ultimo libro dello storico Niall Ferguson. La seconda è la deriva da comunità “a km 0” che recupera elementi di ruralismo un po’ fini a se stessi (e tendenzialmente inoffensivi) che forse accontentano più chi nella comunità cerca un rifugio, piuttosto che un metodo per organizzare la vita e l’azione collettiva.

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