La metafora è totalmente demodè. Ricorda infatti un governo dell’altroieri che appare già lontano anni luce. D’altro canto uno strumento, o almeno una piccola cassetta degli attrezzi, ci vuole se si vuol cogliere l’invito a mettersi #InMovimento lanciato da Vita qualche giorno fa. Una strumentazione che aiuti sia a smontare che rimontare modelli di inclusione, di educazione, di tutela e cura del territorio e dell’ambiente sociale.
Un cacciavite – o forse meglio un coltellino multiuso – c’è e si chiama “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani“. È stato adottato da un importante comune italiano – Bologna – ed è stato vergato da un altrettanto importante giurista – Gregorio Arena – presidente di Labsus, un’organizzazione nonprofit che da tempi non sospetti produce conoscenza e dati esperienziali sulle nuove forme di produzione e rigenerazione dei commons.
Proviamo a metterlo alla prova questo regolamento. Ci sono infatti tutte le premesse perché “faccia scuola” presso altre amministrazioni locali interessate a sbloccare il potenziale di partecipazione civica per la rigenerazione di beni di interesse collettivo. Fuori dagli schemi classici del mercato (gare, appalti, ecc.), ma dentro un sistema di regole che garantisca il carattere autenticamente pubblico sia della procedura che del suo esito.
Certo a prima vista il documento mette un po’ di timore: 21 pagine, 9 capi e 36 articoli per normare quello che al fondo è un esercizio di libertà. È vero che essendo un regolamento amministrativo deve entrare nei dettagli. Però, anche a rischio di subire le contumelie degli esperti di diritto amministrativo, penso che tra ridondanze di contenuto e temi che potevano essere rimandati ad altri regolamenti o trattati in sede procedurale si poteva alleggerire non di poco l’articolato, puntando dritto al cuore del provvedimento. A quell’articolo 5 che definisce il “patto di collaborazione” tra amministrazione e cittadini – singoli o variamente associati – che segnalano un bene da rigenerare per scopi di pubblica utilità o che rispondono a una call lanciata dalla stessa amministrazione comunale su beni di sua proprietà.
Sì ma quali beni? Il regolamento si sofferma con dovizia su asset fisici: gestione condivisa di spazi pubblici, spazi privati da destinare a uso pubblico (interessante a tal fine la richiesta di una “maggioranza qualificata” pari al 66℅ dei proprietari), rigenerazione di edifici ecc. A conferma di questa impostazione materiale è emblematico (e quasi divertente) l’art. 22 intitolato “materiali di consumo e dispositivi di protezione individuale“, dove insomma il comune ti cede in comodato d’uso carriola e cazzuola per i lavori di ripristino.
Però, a norma dello stesso regolamento, il perimetro dei beni comuni è ben più ampio. Sono quei beni materiali e immateriali che la PA e i cittadini “attraverso procedure partecipative e deliberative riconoscono funzionali al benessere individuale e collettivo“. Altro che socialstreet, riattivazione dell’abbandono e open data (col massimo rispetto). Qui ci sono potenzialmente in gioco temi come il welfare, l’educazione, la cultura, ecc. Temi rispetto ai quali questo regolamento rappresenta ben più di un cacciavite o di un coltellino multiuso. Riprendendo in metafora l’art. 22 sembra piuttosto un cantiere edile con tanto di martello demolitore e betoniera.
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