Definirla una moda è forse fuori luogo. Ma è vero che sono sempre di più i soggetti che si cimentano nella ricerca di soluzioni ai problemi delle persone senza fissa dimora. Non solo amministrazioni pubbliche e organizzazioni nonprofit – quelli che si potrebbero definire gli “specialisti” degli interventi in questo campo – ma anche i nuovi attori del filantrocapitalismo e, più in generale, dell’innovazione sociale e della creatività.
Qualche esempio? L’artista designer Winfried Baumann propone le sue “istant houses” come nuove forme di ricovero per gli homeless, con tanto di pannelli fotovoltaici portatili e parabole wifi. Alcuni studenti del Austin Center for Design hanno costruito una mappa concettuale dell’ecosistema dei senza casa nella città texana. E ormai da qualche anno c’è un mundial di calcio con squadre composte da senza fissa dimora. Per non parlare delle varie iniziative sul fronte del digital divide che riconoscono nell’accesso a internet e alle sue risorse uno strumento di inclusione, arrivando ad utilizzare anche bitcoin, la moneta alternativa della rete. Tutto questo si affianca ad attività ormai classiche presso i servizi di prima accoglienza come le iniziative editoriali, i vestiti usati, le lavorazioni artigianali. Un campo vastissimo di socialità spinto da una crisi che amplia per numero e tipologia le forme di povertà ed esclusione abitativa. Certo, il confine tra innovazioni realmente efficaci e strumenti di marketing per i promotori è, in qualche caso, molto labile. Basti pensare al caso segnalato qualche tempo fa di utilizzo di homeless come antenne wifi itineranti, o anche alla deriva “fashion” fatta propria da alcune case di moda.
Ma la novità più recente e di maggior impatto è housing first. Il programma di intervento sperimentato in alcune città americane a parire dagli anni ’90 e che ora si va diffondendo in altri paesi europei, Italia compresa. L’idea, come spesso capita, è semplice e peraltro già sperimentata da alcune nonprofit nostrane, tra le altre la cooperativa sociale La Rete di Brescia. Si tratta in buona sostanza di assegnare subito una casa a chi non ce l’ha o l’ha persa, costruendo, a partire dalla sicurezza abitativa, un percorso (accompagnato) di inclusione sociale e lavorativa che prevede una forte responsabilizzazione dei beneficiari. La differenza sostanziale rispetto a sperimentazioni analoghe sta nell’enfasi assegnata a due fattori chiave. Il primo è la scalabilità dell’iniziativa, per cui la politica di housing first è confezionata nell’ottica della trasferibilità, mentre invece altre iniziative sono vittime della loro sperimentalità localizzata. Il secondo elemento è dato dalla rendicontazione esplicita degli elementi di efficacia ed efficienza (l’ormai famoso “impatto sociale“). Basta un’occhiata al sito di un qualche progetto di housing first per capire non solo come funziona, ma anche quanto conviene a chi finanzia, ad esempio grazie a una semplice ma chiara analisi costi / benefici. Con un colpo d’occhio si cambia idea rispetto a una politica che a prima vista potrebbe sembrare la classica “trappola del welfare” per cui l’assegnazione della casa ingenera assistenzialismo. In realtà è ben più efficace delle alternative perché assegnare subito l’alloggio costa meno in termini di spesa pubblica (o filantropica) destinata a soluzioni “classiche” come dormitori, ospedali, carcere, ecc. E la qualità dell’accompagnamento alla ricerca di un lavoro e di relazioni sociali fa il resto.
Ecco come si innova la più classica politica di welfare: assistere le persone senza casa. Un’innovazione che chiama in causa i modelli di business di soggetti nonprofit spessso alle prese con la gestione e la manutenzione di logoranti “filiere di servizio”. Ma chiama anche in causa i nuovi attori della finanza d’impatto. Scommettiamo che la prossima vittima della homelessmania sarà un social impact bond?
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