Se volete sapere come vanno le cose chiedete a lui (anzi spesso a lei), all’assessore. Precisamente all’assessore alle politiche sociali e preferibilmente di un comune. La sua delega infatti deborda ben oltre il perimentro di alcuni servizi e dei suoi “utenti finali”. E’ un punto di vista sulla società nel suo complesso perché catalizza bisogni sempre più rilevanti e drammatici per estensione e intensità, ma anche perché attrae e combina risorse di varia natura, ben oltre l’alveo quasi in secca dei trasferimenti pubblici. Per farla breve queste persone – non solo loro, ma soprattutto loro – sono l’indicatore della rilevanza assunta dalla produzione di beni comuni (o di interesse collettivo) come asse portante dei sistemi sociali (ed anche economici) nel bel mezzo di questa nuova “grande trasformazione” della nostra società.
Non è un fenomeno nuovo in realtà. Già in passato altri avevano notato (e indagato) il ruolo di questo personale politico come agente di sviluppo in chiave imprenditoriale e non come semplice “amministratore della cosa pubblica”. Ma la scala dei problemi, e non da ultimo, il fatto che questa classe politica ha ora un suo “rappresentante” a capo del governo nazionale, ne ha aumentato la rilevanza.
Tutto bene per il terzo settore, si dirà, visto che la quasi totalità di queste organizzazioni vive e prospera a stretto contatto con gli assessori locali. E che, non da ultimo, c’è un numero crescente di amministratori pubblici che sfoggia nel proprio curriculum esperienze come volontario, operatore e imprenditore sociale. E invece no. La sensazione è che il rapporto non sia così sintonico. Mi è capitato, in queste settimane, di verificare che è ancora duro a morire quell’assunto non dimostrato secondo il quale quando un esponente del terzo settore spicca il salto in politica assume un atteggiamento critico verso il suo ambito di provenienza. Ne esce in particolare una rappresentazione della società civile incapace di rinnovare la partnership con il pubblico che, nel recente passato, ha rappresentato un importante motore di trasformazione, in particolare delle politiche di welfare.
Ecco i capi di accusa più ricorrenti per il terzo settore. 1) Un eccessivo incrementalismo nell’adeguare l’offerta di servizi rispetto alle trasformazioni sistemiche in atto. 2) La scarsa capacità di generare risorse aggiuntive che possano cofinanziare le attività (sia quelle esistenti che quelle innovative). 3) Una tendenza all’autoreferenzialità che polverizza le unità di servizio (alla faccia della scalabilità) e limita la capacità di far rete con altri soggetti che possono contribuire ad allungare la coperta della protezione sociale (le imprese for profit in particolare). Al di là del fatto che queste accuse siano vere o meno è interessante notare che hanno tutte una stessa origine: sono in gran parte riconducubili all’effetto di colonizzazzione esercitato proprio dalla Pubblica Amministrazione sul terzo settore. Come dire: accuse rispedite al mittente. Oppure, in modo più propositivo: se ne esce insieme, anche perché, al fondo, si fa (quasi) lo stesso mestiere.
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