Eccolo, è tornato. L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori torna alla ribalta del dibattito politico, monopolizzandolo da par suo. Non per il contenuto – si tratta infatti di una questione marginale rispetto alla riforma del lavoro – ma per il suo significato simbolico ed evocativo. L’articolo 18 è una bandiera strumentalmente utilizzata per identificare le opposte fazioni. E spesso anche una clava per regolare i conti più che per un’autentica dialettica sui contenuti. A seconda della posizione consente infatti di tacciare i conservatori – quelli che vogliono mantenere lo status quo – e gli smantellatori delle garanzie residue nel mercato del lavoro.
C’è una questione “articolo 18” anche per il nonprofit? Un dispositivo normativo che assurge a emblema di un confronto che è anche e soprattutto ideologico? La risposta è si ed è anche facile da individuare: si tratta dell’articolo 4 del decreto che illustra le linee guida di riforma del terzo settore. L’articolo in questione riguarda l’impresa sociale, in particolare la sua definizione. Nel testo infatti si qualifica questo modello come “impresa privata a finalità di interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi e misurabili“. Eccolo qui l’oggetto del contendere: il fatto che sia giusto e possibile misurare in modo oggettivo il valore sociale prodotto non solo per beneficiari diretti e indiretti, ma guardando anche a effetti sistemici sulle politiche e sui sistemi di regolazione.
È facile farsi prendere la mano e leggere questa disposizione come un confronto / scontro tra conservatori e innovatori. O, in modo più raffinato, tra chi punta l’attenzione sugli esiti dell’azione imprenditoriale in termini di benefici sociali vs coloro che invece preferiscono guardare alle forme giuridico organizzative che ex ante possono garantire un impatto sociale positivo. Ma in ogni caso la rappresentazione è sbagliata. In primo luogo perché, come ricordava Elena Casolari al recente Workshop sull’impresa sociale, la normativa italiana è certamente orientata al cambiamento e in particolare ad arricchire l’ecosistema dell’impresa sociale. Ma è chiamata anche a conservare esperienze come la cooperazione sociale che si dimostrano ancora proattive nel cercare soluzioni nuove rispetto a modelli di servizio e di business che risentono del cambiamento epocale in atto. In secondo luogo la deriva da articolo 18 è sbagliata perché, come dimostrano recenti indagini come quella recentemente presentata da Sodalitas – sul fronte dell’impatto sociale siamo tutt’altro che all’anno zero, nel senso che esistono culture e pratiche di misurazione molto sofisticate, precise ed anche sostenibili in termini di costi. In sintesi: esistono tutte le condizioni per un autentico “dialogo sociale”. Basta volerlo.
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