A vederla così, “Ridiculousness” potrebbe sembrare l’ennesima produzione televisiva trash. La trasmissione di Mtv, infatti, si basa sulla presentazione di video presi da internet che raccontano piccoli e grandi epic fail: incidenti, scherzi e quant’altro. In effetti il lato trash c’è (ed è anche cercato). Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione. I video vengono classificati in categorie di contenuto molto originali e divertenti che cambiano di puntata in puntata. Significa quindi che c’è una redazione al lavoro – davvero molto capace – che si inventa categorie usandole come poi come un amo per pescare nel mare magnum della rete. Non è certo un problema di disponibilità, anzi. Di video assurdi ce ne sono in abbondanza, quindi si tratta “semplicemente” di organizzarli. E il virgolettato ci vuole tutto considerando l’enorme quantità e varietà di materiale a disposizione.
Nel suo piccolo (o nel suo grande, decidete voi), Ridiculousness è una rappresentazione (l’ennesima) di come cambia la “produzione di contenuti” ai tempi di internet, influenzando anche un media tradizionale come Mtv. Di produzione originale c’è poco o nulla. Esiste piuttosto una piattaforma che fornisce un format – il video, ma potrebbero essere i post su un blog o su un qualsiasi social network – e che poi “tagga” i materiali della crowd in categorie che sono significati, ma anche preferenze. Se poi questi stessi contenuti vengono correlati tra loro il gioco è fatto. Nel senso che diventano profili che riguardano scelte di vita e di consumo. Le famose espressioni “potrebbe interessarti anche…” o il “altri hanno acquistato…” che inesorabili accompagnano i nostri acquisti su piattaforme come Amazon, Itunes, Groupon, ecc.
Lo stesso meccanismo si sta velocemente imponendo anche in contesti dove il medium non è lo scambio di mercato. O meglio dove il mercato c’è, ma non assume una rilevanza primaria. Non è in altri termini il movente primario dell’azione. Il riferimento va a tutte quelle piattaforme che intermediano attività e servizi di economia condivisa. Anche in questo caso queste iniziative mobilitano risorse di varia natura – il passaggio in macchina, la stanza di casa, il noleggio – e le interfacciano rispetto alla domanda. Niente di nuovo si dirà, se non per il dettaglio che la disponibilità di una tecnologia così pervasiva e smart consente amplificare il sistema relazionale disintermediandolo da vincoli di tempo e spazio. Basta un click.
C’è però un tema clamorosamente sottovalutato, probabilmente per il fatto che siamo un po’ tutti abbagliati dalle funzionalità e dall’impatto di queste piattaforme tecnologiche. Il tema riguarda la loro governance, ovvero il modo in cui diventano “sharing” anche i sistemi decisionali e le quote di potere. Per ora la soluzione è tutta, o quasi, nelle mani dell’economia capitalistica. Anche nel caso di piattaforme dove l’elemento della condivisione – vero o presunto – assume un ruolo importante. Luca Debiase in un suo recente post reclamava per alcune piattaforme internet uno statuto di “utility”. E Marta Maineri – che gestisce Collaboriamo!, il database italiano di sharing economy – segnalava tra le caratteristiche distintive dell’economia collaborativa digitale il fatto che “gli asset che generano valore per le piattaforme (beni e competenze) appartengono alle persone e non alla compagnia”. In parole povere le piattaforme sono (o dovrebbero essere) nonprofit. Rispetto a queste sollecitazioni si sconta però un grave deficit di creatività istituzionale nell’individuare assetti di governance per strumenti così complessi: immateriali, globali, con basse barriere all’ingresso (e all’uscita) e con difficoltà a individuare (e tutelare) la sorgente dei contenuti. E così nel frattempo continuiamo a delegare pezzi sempre più rilevanti della nostra socialità a sistemi di regolazione e di accumulazione che poco hanno a che fare con il tipo di oggetti scambiati e soprattutto con la natura dello scambio.
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