Se sharing economy significa disintermediare la catena di produzione e distribuzione di beni e di servizi e se il welfare è il campo dove esercitare questa azione distruttiva, allora vale la pena recuperare una vicenda – quella delle assistenti familiari – che, a prima vista, ha poco a che fare le nuove, scintillanti fenomenologie dell’economia della condivisione.
Cosa c’entra la badante con la sharing economy è presto detto: si tratta del più recente (e potente) fattore di disintermediazione attivo nel welfare socio assistenziale. In un arco di tempo contenuto si è affermato un nuovo modello di offerta che ha accorciato le distanze con la domanda, tagliando fuori gli operatori tradizionali e bypassando gli schemi di regolazione, spesso sotto la soglia della legalità. Se si aggiunge che la cosa ha funzionato, nel senso che non si è trattato di una casistica isolata, ma di un mercato che ha presto raggiunto una sua massa critica, allora possiamo davvero dire che le badanti hanno esercitato la stessa funzione dei più glamour Uber, AirBnb, Bla Bla Car, ecc.
Quali lezioni si possono trarre da questa trasformazione del welfare che ha sfidato, tra gli altri, anche il nonprofit e l’impresa sociale? Lezioni utili sia per capire come si può regolare “senza soffocare” la sharing economy (tema della nuova edizione di sharitaly), sia per capire a quali condizioni è possibile creare sinergia e non conflitto tra modelli di servizio diversi. Perché in ballo, vale la pena di ricordarlo, ci sono i bisogni di persone e famiglie fragili sul lato della domanda di servizi, ma anche su quello dell’offerta (operatori professionali, volontari, care givers).
Prima lezione: le risorse ci sono. Risorse economiche certo (le badanti “fatturano” circa 10 miliardi di euro), ma anche organizzative e logistiche (in gran parte informali). Una industria complessa con tanto di indotto (trasporti, abitazioni, forniture, mercato del lavoro) che però si è sviluppata in gran parte al di fuori della “politica industriale” rappresentata dal sistema di welfare. Con l’effetto di amplificare il suo carattere “disruptive” nei confronti dell’offerta standard, ma anche di radicalizzare gli elementi di debolezza tipici di un modello emergente.
Seconda: le piattaforme contano. Digitali o no, le strutture di aggregazione sia dei portatori di bisogno che dei fornitori di risposte servono fin da subito per sviluppare e far crescere un’economia realmente collaborativa. Altrimenti si genera una frammentazione che ex post è molto complicato strutturare, come purtroppo insegna il caso delle assistenti domiciliari. Mentre da più parti si evoca la “badante di condominio” prevale ancora un modello point to point (una badante per un anziano).
Terza: regolare è importante. Banale fin che si vuole, ma nel caso delle badanti sono ben visibili gli effetti derivanti da meccanismi di contratto che, ad esempio, hanno limitato le forme di organizzazione collettiva, sia dei produttori (le badanti non possono mettersi in cooperativa) che dei consumatori. Più nel dettaglio il badantato ha indotto un ripensamento dei modelli di servizio e di allocazione delle risorse che ha sollecitato la programmazione delle politiche di welfare, soprattutto a livello locale. E ancora ha spinto i fornitori “accreditati” come le imprese sociali a riposizionarsi attraverso strategie che hanno cercato di mettere a sistema (e online) la loro offerta di servizi.
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