Fiscal compact

di Marco Dotti

Un Parlamento non c’è più. Al suo posto ci ritroviamo con un banale refettorio. Un luogo dove masticare chewin gum, sbadigliare e, quando capita, prestare l’inerzia della propria mano per ratificare oscuri trattati dai nomi altrettanto oscuri. Qualcuno lo dica e lo ammetta. La coda lunga del Secolo breve, il XX, ci ha proiettati in un’era post-democratica che credevamo appannaggio di qualche amena località del Terzo mondo. Il Terzo mondo siamo noi. I parlamenti, gli stati, le istituzioni permangono come templi vuoti, ma divinità e mercanti sono altrove . 

Oggi nello zoo chiamato Italia è il turno del Fiscal compact. Cliccando qui si può vagamente capire di cosa si tratta, ma se vogliamo farla breve, diremmo che è solo e semplicemente uno scivolo verso la fine. Si affida il timone ad altri (sempre gli stessi, ma seduti altrove), affinché si possa affondare meglio. Le politiche economiche, oramai ridotte a mere politiche fiscali, verranno decise altrove, in Europa appunto. Perché tanta fretta? In Germania, ad esempio, si aspetterà il 12 settembre, quando la Corte deciderà sulla Costituzionalità del provvedimento. Qui? Tutto regolare? Tutto costituzionale?  

Sui giornali appariranno dichiarazioni di ministri esultanti, questo è prevedibile, per una legge che presenteranno come una necessaria assunzione di responsabilità politica da parte della Comunità europea. Banalità sconcertante. Non meno di quella sulla cessione di sovranità. Siamo il reame dei gonzi, giornalisti in testa. I tedeschi un po’ meno, o forse avranno fatto tesoro della lezione di Carl Schmitt (ma nelle nostre facoltà di legge, fino a qualche anno fa, si studiava sui libri di uno che sul piano scientifico non gli era da meno…   Costantino Mortati, un grande). Sia come sia, il Fiscal compact comporterebbe, quanto meno, l’esistenza di un sovrano più abile e credibile sulla scena. Voi ne vedete? Gli americani distinguono tra politics  – rapporti di forza e sostanza – e policy – forma, mediazione, amministrazione della cosa pubblica. Oggi né l’una, né l’altra bastano a spiegare quanto accade. Siamo in un’era post-politica, nel senso che la policy rimane solo come ipotesi da manualistica universitaria e la politics è sempre più consegnata a quell’altrove della politica che non sappiamo se non genericamente definire, di volta in volta,  come “finanza”, “mercati”, “Europa” e compagnia cantante.

Mi spiace non dar torto a Oscar Giannino, quando uno ha ragione è buona educazione ammetterlo. E stavolta Giannino ha maledettamente ragione: Stato ladro. Solo che lo Stato, anzi lo “stato” (cominciamo a scriverlo con la minuscola, per il rispetto che si merita), non ruba più per sé, ma per conto terzi. Dove siano e chi siano questi “terzi” non è dato sapere.

Fiscal compact significherà un debito infinito, scelte delegate, la fine dei parlamenti anche solo come mera opera di facciata. Resteranno i muri, certamente, qualche intonaco scalcinato e un po’ di stucco, forse, a ricordaci domani di quella cosa imperfetta e oscura, ma di gran lunga preferibile al paese dei balocchi di tecnici e professori, che chiamavamo democrazia.

Fiscal compact, si diceva. Dietro la formuletta magica c’è un’amara verità: è la fine. Se non lo schianto, ci aspettavamo almeno il sospiro o il piagnisteo di cui parla Th. S. Eliot nella sua Terra desolata. This is the way the world ends | This is the way the world ends | This is the way the world ends | Not with a bang but a whimper. (Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Non con uno schianto ma con un lamento).

Niente, solo l’incuria, l’indifferenza, il volto duro, per nulla tragico, piuttosto bestiale degli uomini cavi che ci, che vi governano. This is the End. Arrivederci e grazie, ci vediamo in un’altra vita.

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