Monopolio, Sangue & Alzheimer secondo Monti

di Marco Dotti

Siete, siamo una generazione perduta. Parola di

Mario Monti che, nero su bianco, sfruttando la bassa  frequenza dei settimanali a alta diffusione non manca di stupirci, con dichiarazioni a effetto multiplo sulle proprie idiosincrasie trasformate in discorso pubblico.

Monti sembra diventato un maestro del senso comune, che nulla ha a che vedere col buon senso o col senso critico. Al contrario. C’è anche poco realismo, nelle dichiarazioni di Monti che, se fosse Mazzarino o Talleyrand  – ma non lo è – almeno ci delizierebbe con ben altre perle di saggezza.

Per Monti, dicevamo, c’è una generazione perduta: sono i ventenni, i trentenni e i quarantenni di oggi. Gli anziani? Quelli non contano. (Chi rimane, dunque?) Una generazione per la quale, spread o non spread, c’è ben poco da fare. Peccato sia una generazione (anzi, una sommatoria di generazioni) che le tasse le paga, alla quale Mario Monti, il professor Mario Monti ha insegnato per anni (con quali frutti?) e fino a prova contraria gode di diritti civili. Una generazione che, prima o poi, dovrà pur presentarlo il conto ai tutori della gerontocrazia d’Europa  col suo codazzo di servi di scena. 

La lettura è da brividi, nonostante il caldo estivo. Il lessico di Monti si presenta molto simile a quello del protagonista di un racconto di E. T. Hoffmann (quale sia il racconto, non ve lo dirò mai). 

Virgolettato di Monti: «credo che chi in qualche modo partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non creare altre generazioni perdute».

Dall’intervista concessa a Ferruccio Pinotti, apparsa il 27 luglio scorso su Sette del Corriere della Sera, si evincono altre perle.

Monti dichiara così di aver preventivamente rinunciato all’idea di una laurea in medicina perché – parole sue, p. 36 –  «non ho mai sopportato la vista del sangue, della malattia, della sofferenza». 

Alla domanda di Pinotti (p. 39) su quale «sarebbe per lei la più grande disgrazia», Monti, il timido Monti non teme la gaffe e risponde sicuro, a onta della timidezza che dichiara (p. 36) essere fra i tratti distintivi del suo carattere: «Perdere il senno e non accorgermene, come avviene con  l’Alzheimer, diventare appannato nella mente, senza accorgermene».  

C’è pure il sogno ricorrente, tra le domande di Pinotti. E la risposta arriva, precisa e chiara: «È uno strano sogno ricorrente, che mi provoca un po’ di trauma e che anche a distanza di tanti anni viene fuori: sogno di arrivare in ritardo a tenere la mia lezione all’università di Torino, a causa di scioperi ferroviari o manifestazioni che bloccano i binari. Da giovane, oltre che alla Bocconi, ho insegnato per nove anni, dal ’70 al ’79, a Torino: anni duri dal punto di vista sociale e sindacale. Non so perché, ma l’angoscia di arrivare tardi, come qualche volta era accaduto, è ancora radicata in me».  Fuori scoppiava il mondo, c’erano gli scioperi, gente che perdeva il lavoro, altre generazioni perdute (i padri di quelli di oggi, caro Presidente) e Monti sognava pochi minuti di ritardo nel treno. 

Inutile dire che la logica dei numeri, quando ti afferra, non ti lascia mai. Nemmeno di notte.

Poi Monti si lancia in singolari digressioni su capitalismo e monopolismo (digressioni sulle quali si è concentrato Carlo Lottieri, in un articolo pubblicato su Communitas, clicca → qui).

 Potrei continuare, ma l’angoscia comincia a prendere anche me. Domani vado a Torino e chissà mai che a qualche generazione perduta non venga in mente di occupare i binari. Non sia mai. Mai.

 

 


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