Politica di movimento oltre la crisi

di Marco Dotti

D’estate fa caldo, certo. Sotto il pergolato si sta effettivamente meglio, e talvolta, capita pure di scambiare quattro chiacchiere con amici. Senza stress (esiste un’App per lo stress?), senza I-Phone (altro nome da dare allo stress), senza altro scopo che il piacere di conversare. Questo è il frammento di una conversazione estiva, con un amico. Lo pubblico così com’è, per dire anche a voi: eccoci qui, ancora una volta, a parlare (sperando si possa conversare sempre e conversare ancora. Attività per ora esentasse).

 

Dentro le crisi permangono pur sempre rivoli di vitalità. Non dobbiamo ridurre tutto alla sola dimensione istituzionale, perché ciò che è vivo spesso scorre sottotraccia: lo sentiamo come rumore di fondo, lo percepiamo come shock improvviso, ma sempre come qualcosa che all’apparenza non modifica quegli aspetti che noi riteniamo – magari a torto – gli unici rilevanti nello spazio pubblico. In politica, quando ci si chiede quali sono gli aspetti decisivi ci si trova davanti a un muro. Magari uno parla di poesia, di condivisione, di sentimenti diffusi, di amore, ma la risposta che riceve è sempre la stessa: «Sì, ma tutto questo non è politica». Seguendo tale logica, allora, la politica si riduce alla sola istituzione. Stiamo attenti però, perché l’istituzione è un calice terribilmente stretto, quasi un nodo scorsoio nei confronti della quale tutto ciò che è vivo e percepiamo come vitale diventa niente, “è” niente.

In Italia, oggi, ciò che si chiama politica e i linguaggi la riguardano appaiono più una sorta di grande segmento inerte, fortissimo però quando si tratta di fermare qualcuno in qualche modo tenti di attraversarlo per andare verso qualcosa di nuovo e debolissimo quando gli si chiede di avere a che fare – appunto – con ciò che è vivo.

La crisi in cui ci troviamo, è  crisi di una riflessione che non sembra più in grado di ispirare buone prassi. Non dico che la riflessione debba tradursi necessariamente in pratica, dico che non si dà riflessione che non passi attraverso una pratica.

Una pratica che sappia anche cambiare il nostro modo di pensare, non solo il prodotto del nostro pensiero…

Ogni volta che sento dire che coloro che vorrebbero dedicarsi a certe attività o a certi studi sono troppi, che “il fabbisogno è minore” mi vengono i brividi. L’idea che coloro che studiano – a patto che lo facciano seriamente – e che la quantità di innovazione scientifica e culturale a un certo punto diventi troppa mi fa pensare che ci sia qualcosa che non funziona nel mondo che trova tutto questo essere “troppo”.

Se mi trovo di fronte a delle risorse e, anziché come risorse, le tratto come impicci, probabilmente qualcosa non funziona. Ricordiamoci, una volta di più, la parabola dei talenti: il servo che nasconde sotto terra il talento e non lo fa fruttare, non è il servo migliore. Se il nostro realismo deve consistere nel dire “siete di troppo” a tutti coloro che aspirano a fare qualcosa di originale e di utile, invitandoli ad andarsene o a fare cose scontate e banali forse il problema è negli apparati realmente eccessivi che producono questa forma di discorso “contenitivo”.

Oggi in Italia, non solo ai cosiddetti giovani, ma al complesso degli esseri umani si ha generalmente il problema di chiedere generalmente molto poco, per restituire pochissimo… Il problema sta tutto nell’invertire l’ordine dei fattori. E sperare che il prodotto cambi.


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