Roma senza Papa. Malachia aveva ragione?

di Marco Dotti

La profezia sull’ultimo papa, Petrus Romanus, annuncerebbe la fine della Chiesa e la distruzione di Roma.  Attribuita a San Malachia di Armagh, il dettato profetico elenca 112 papi, identificati da motti latini e non per nome: da “Ex castro Tiberis”, ossia Celestino II (1114) fino a “Petrus Romanus” che, stando ad alcune letture, sarebbe il successore di Ratzinger, centoundicesimo pontefice, altrimenti chiamato “Gloria olivæ”.

Non è mai sensato chiedersi se una profezia si avvererà o meno. La struttura della profezia è “performativa”: indirizza l’umore degli uomini attorno agli eventi, non certo gli eventi stessi. Trasforma la loro percezione delle cose, non le cose stesse. Per questa ragione sarà interessante osservare come e cosa si diranno, il cultori del profetico post-moderno, dopo l’annunciata abdicazione di Benedetto XVI. Di certo, sull’immagine del futuro pontefice graverà il mito a bassa intensità dell’ultimo papa. E non è un peso da poco, visti i tempi.


Torniamo quindi alla profezia: storicamente attribuita all’arcivescovo irlandese Malachia (Maelmhaedhoc O’Morgair),  la ottenne dopo una  una visita a Roma, consegnandola nella mani di Innocenzo II. La profezia rimase però sconosciuta agli Archivi Romani fino alla sua scoperta del 1590. Poco tempo dopo, venne pubblicata dal benedettino Arnold de Wyon nell’opera Lignum Vitae ornamentum et decus Ecclesiae.  Un’opera – quasi certamente frutto di interpolazioni o falsi – che diede origine a un’infinita serie di deduzioni sulla Roma senza Papa e sul «sigillo della storia».

Secondo la profezia di Malachia, l’ultimo pontefice si chiamerà  Pietro II. Sarà stanco e deluso, ci dice la tradizione annessa alla profezia. Di più – rimarca Sergio Quinzio in Mysterium iniquitatis, il suo ultimo libro, pubblicatonel 1995 da Adelphi – sarà angosciato dal mancato compimento dell’annuncio di salvezza tramandato lungo i millenni e dal presentimento della fine della storia. Credere alla profezia e alla sua meccanica ineluttabilità? Credere a questa fine?

Oppure, come lo stesso Quinzio scriveva, «la fine del mondo, come la resurrezione, non è un “fatto naturale”, qualcosa che assomigli a ciò che gli astronomi possono calcolare, ma , come la creazione, è il miracolo di Dio, è il suo intervento diretto e definitivo». Non è proprio questo intervento diretto della grazia, del metastorico nella storia, ciò che i cristiani chiamano «la verità cristiana»?  

E se la profezia di Malachia fosse nient’altro che un falso? Se a compilarla non fosse stato Malachia, ma quell’Alfonso Ceccarelli giustiziato il 9 luglio del 1583 come falsario? Sia come sia, vere false o presunte (come i celeberrimi Diari di Mussolini), le profezie su una cosa non mentono: sulla nostra tendenza a scambiare la parte per il tutto e viceversa. Anche questo è un segno dei tempi.

 

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