Pensavamo che la campagna elettorale appena conclusa ci avesse già riservato tutto il meglio e il peggio della comunicazione politica.
Proprio per questo pensavamo che i “manifesti parlanti” fossero roba da Metropolis di Fritz Lang o Minority Report, il film di Spielberg tratto dal racconto di P.K. Dick.
Nel film di Spielberg si attivavano al passaggio, con un riconoscimento bulbo-oculare e immediatamente trasmettevano all’impotente di turno offerte personalizzate. “Ti è piaciuta la vacanza?”, “Ci sono abiti della tua taglia in offerta per te”, si sentiva ripetere il passante. In un vecchio film di Chabrol, il Dottor M, a parlare erano invece i manifesti politici.
Eppure, se vi capitasse di camminare per il Friuli – dove presto si vota – potreste imbattervi proprio in uno di questi manifesti. Puntando il vostro telefonino sulla faccia pulita e scaltra di Debora Serracchiani, la neocandidata alla Presidenza della Regione, una delle “eternamente giovani” del PD , armata di frangetta e buone parole prenderebbe a animarsi e a parlare con voi. Sì, proprio con voi.
Si tratta di tecnologia aumentata (il cosiddetto AR Code). Non è proprio Minority Report, ma è un primo passo in questa direzione. Che a compierlo sia un politico, e non di secondo piano, lascia però interdetti. Già a dicembre la Serracchiani aveva fatto la sua comparsa con manifesti 6X3 (misura un tempo additata come “berlusconiana”, ma ora più che mai sdoganata dal nuovo corso del PD).
Nel 2009, tra le righe del suo libro edito da Rizzoli (Il coraggio che manca), la Serracchiani affermava con orgoglio: «Io non ho sponsor, io sono quella che sono e devo crearmi uno spazio sul campo». Oggi quello spazio se l’è indubbiamente trovato, ma è uno spazio asfittico e autoreferenziale. Per vivere in questo spazio e non sentirsi troppo a disagio, non serve essere giovani, non basta essere intelligenti. Non basta nemmeno avere una simpatica frangetta: bisogna avere il gusto delle parole che girano a vuoto. Reggere quel vuoto come se fosse qualcosa di importante per sé e per gli altri. Cultura, innovazione, sviluppo, riforme: è nel rimpallo tra i vertici di questo nichilismo semantico che affiora tutta la sterile circolarità di un progetto politico basato su comparsate nei talk show televisivi, in qualche tweet lanciato a caso e in cartelloni pubblicitari che nemmeno in Corea del Nord prenderebbero in considerazione
Per starci dentro, per starci davvero dentro a tutta questo vuoto di senso che sono i “partiti” – con le loro pseudo liturgie e le loro pseudo motivazioni civiche – bisogna diventare esseri un po’ ibridi. Ibridi, ossia a metà tra il reale e l’immaginario.
C’è infatti da chiedersi che senso abbiano tutta questa cultura e tutta questa innovazione, gettate nel mezzo di una campagna elettorale permanente che, da un lato, fa grande sfoggio di parole come “partecipazione” e “dialogo” e concepisce quella partecipazione e quel dialogo come una pantomina tra un passante e una proiezione del proprio di sé in movimento su un cartellone pubblicitario, manco fossimo a Disneyland.
Costa troppo, cara Debora, scendere nelle piazze? O forse, ben più semplicemente, per il dialogo in piazza non sono previsti rimborsi elettorali? Sia come sia,prepariamoci al peggio perché finita in farsa la breve stagione della politica 2.0, inizia quella dei “social” manifesti politici parlanti.
Non lamentiamoci, poi, se davanti a tanto tripudio di innovazione e cultura la “gente” volta lo sguardo e magari anche il voto da un’altra parte..
#senzapartito
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