Abbiamo ancora il “difetto” di considerare la dipendenza da slot machine come una conseguenza, seppur minima, di un atto di volontà. «Se a qualcuno succede – questo è il nostro retropensiero – se qualcuno ci casca è perché, in fondo, se l’è andata a cercare». Eppure non solo la logica, ma le ricerche più avanzate nell’ambito delle neuroscienze ci offrono una smentita salda e pressoché definitiva: la dipendenza da slot machine non è un fenomeno relativo alla volontà. Suoni, luci, velocità e contatto con i tasti: un labirinto sensoriale da cui è difficilissimo uscire, ma da cui tutti – come davanti alle luci di una vetrina infernale – possiamo essere attratti.
Non è un gioco, non è un vizio, non è una “scelta” finita male per cui il giocatore e i suoi famigliari debbano espiare chissà come e chissà per quanto. La dipendenza da queste macchine infernali è solo e nient’altro che dipendenza, ossia schiavitù emotiva, affettiva, economica, relazionale. Una schiavitu che è di fatto legittimata da un banalissimo comma (il 6°) di un semplicissimo articolo (il 110) del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il cosiddetto TULPS. Basterebbe 1/ ora di dibattito parlamentare, e si potrebbe risolvere il tutto. Ma non si fa, si preferiscono proposte, disegni, progetti, decreti legge: tutti inutili, tutti miranti a farci perdere tempo.
Nonostante l’azzardo sia tuttora considerato un illecito dal Codice Penale, nonostante la dipendenza (ribadiamo: la dipendenza) da gioco d’azzardo sia stata recentemente riconosciuta dal nostro ordinamento come una patologia, lo stesso ordinamento è costretto a piegarsi giorno dopo giorno a ragioni formalmente antigiuridiche e sostanzialmente ingiuste. Qui non è questione di lobby, non solo. Qui è questione di un diritto sacrificato sull’altare dell’incoerenza, prima ancora che dell’iniquità.
Prendiamo due definizioni elementari dalla Treccani:
Volontà: «Potere insito nell’uomo di scegliere e realizzare un comportamento idoneo al raggiungimento di fini determinati».
Dipendenza: «condizione di incoercibile bisogno di un prodotto o di una sostanza, soprattutto farmaci, alcol, stupefacenti, riguardo ai quali si sia creata assuefazione e la cui mancanza provoca uno stato depressivo, di malessere e angoscia e talora turbe fisiche più o meno violente».
Sembra chiaro che i due concetti si escludono. Sono in una relazione che un logico chiamerebbe di antinomia. O c’è volontà, o c’è dipendenza. Sostituiamo il termine “volontà” con “libertà” e il risultato non cambia.
Libertà: «facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo».
Prendiamo ora un caso concreto: Saronno, provincia di Varese, l’omicidio apparentemente senza scopo o movente di una donna, titolare di una gioielleria. Un caso che ha fatto scalpore più che altro per la brutalità e per la taglia offerta da un impresario del “Compro Oro”. Ora in galera c’è finito un ragazzo della zona e la notizia è stata derubricata in quinta pagina. Ma quello che emerge, anche dalla quinta pagina, è terribilmente inquietante.
Antonio Maggio, padre di Alex, l’uomo che ha ucciso Maria Angela Granomelli, la gioielliera di Saronno, ha infatti raccontato una verità sconcertante al quotidiano Il Giorno: «Mio figlio è stato rovinato dalle slot machine“. “Era un bravo ragazzo – racconta -, non lo sento da tanto, abbiamo interrotto i rapporti circa tre anni fa, ma sono sicuro di una cosa: a rovinarlo sono state le slot machine:giocava e perdeva tutto quello che guadagnava».
Dobbiamo riflettere sulle cose e le cose ci dicono che:
1) Una donna è stata brutalmente massacrata, senza alcun motivo criminale apparente (rapina, furto, violenza etc.). La sua morte assomiglia più a quella consimile di molte persone vittime di soggetti sotto effetto di metanfetamina o crack.
2) Un imprenditore del “Compro Oro” ha pensato bene di mandare in giro per la città un furgoncino con il cartello recante l’indicazione di una taglia sull’assassino.
3) Il responsabile dell’omicidio era fortemente dipendente dalle slot-machine.
C’è qualcosa che inquieta, in questa semplice giustapposizione di eventi. Qualcosa che sembra la spia di una guerra civile strisciante, in atto, di cui non vogliamo parlare. Cerchiamo di individuare la volontà (criminale) o la libertà (di consegnarsi al male), ma troviamo solo miseria e dipendenza.
Ragioniamo: non “perché l’ha uccisa”, ma “cosa l’ha spinto a una violenza così bruta e gratuita”? Su chi dovremmo mettere una ipotetica taglia, ora? Sui mandanti? Siamo sicuri che questa dipendenza non sia, forse, la più devastante rispetto a ciò per cui dovremmo nutrire il massimo di cura e attenzione, il nostro senso di – fuor di retorica – umanità?
Attenzione: qui non si tratta di elaborare l’ennesima strategia di fuga dalle responsabilità individuali. Qui si tratta di non fuggire noi, come collettività al dovere di porci domande serie, radicali: dove stiamo andando? Colpevole è chi dall’alto prospera su questo business che produce miseria, ma colpevole è anche chi, nel silenzio, si crede al sicuro, ma non lo è.
Dobbiamo muoverci subito.
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