Pietro Barcellona era nato a Catania, nel 1936. A lungo professore ordinario di filosofia del diritto nell’università siciliana, era stato membro del Csm e figura di riferimento per molti di noi. Pietro Barcellona ci ha lasciati poche ore fa (un ricordo di Giuseppe Frangi, qui), in punta di piedi, come sempre.
Ho un ricordo indelebile di lui, del suo sorriso, della mitezza, delle parole con cui mi rassicurava accendendosi l’ennesima sigaretta. Gli chiedevo “che fare” e lui rispondeva, raccontandomi di come gli fosse crollato il mondo addosso – lui, comunista – dopo il 1989. Ultimamente lo criticavano per alcune sue posizioni molto vicine alla Chiesa. Era solo un uomo che non aveva mai smesso di cercare.
Diceva (e lo ha anche scritto, perché quel colloquio ha poi preso forma di articolo): «In un’epoca, come quella attuale, di “cambiamento catastrofico” non ha alcun senso ipotizzare a parole magnifici traguardi per una società postconflittuale, che sappia gestire pacificamente i beni comuni e la tutela del lavoro. Come sempre, per le idee bisogna lottare praticamente, dando l’esempio con la propria vita ed interpretando le contraddizioni reali come spazio per costruire nuovi passaggi verso il futuro».
Questa lotta, Barcellona la declinava in un tempo di crisi: «impara a distinguere l’amico da chi non ti è amico, ma dialoga con tutti», diceva. E poi riprendeva la lezione, senza cambiare il registro. Parlava da professore, ma come si parla a un amico (lo faceva con tutti, era una sua disposizione d’animo): «Il tema della crisi va letto come crisi sociale del tessuto connettivo della società, di cui sono vittime principalmente i ceti medi produttivi e i lavoratori, autonomi e dipendenti: è di questa realtà sociale, psicologica ed economica che bisogna capire la tendenza verso il cambiamento, trasformando le aspirazioni individuali in risorse collettive capaci di incidere concretamente sull’equilibrio dei poteri reali».
Fino all’ultimo ha tentato nuove alleanze. Fino all’ultimo ha provato a incidere su quegli equilibri con passione, generosità e rigore. Oggi è bello ricordalo con un “canto” che gli piaceva molto, di Ezra Pound. Barcellona citava questi versi come fossero un piccolo, grande invito a non demordere mai. Non demorderemo.
Scrive Pound:
Ciò che sai amare rimane, il resto è scoria
ciò che sai amare non ti sarà strappato
ciò che sai amare è il tuo vero retaggio
il mondo, quale? Il mio, il loro
o di nessuno?
Prima venne la vista, poi diventò palpabile
Eliso, fosse pure in quell’antro d’inferno,
ciò che tu sai amare è il tuo vero retaggio
ciò che tu sai amare non ti sarà strappato.
La formica è centauro nel suo mondo di draghi.
Deponi la tua vanità, non è l’uomo
che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia,
deponi la tua vanità, dico, deponila!
La natura t’insegni quale posto ti spetta
per gradi d’invenzione o di vera maestria,
deponi la tua vanità,
Paquin, deponila!
Il casco verde tua eleganza offusca.
“Padroneggia te stesso, e gli altri ti sopporteranno”.
Deponi la tua vanità
sei cane bastonato sotto la grandine
tronfia gazza nel sole delirante,
mezzo nero mezzo bianco
tu non distingui fra ala e coda
giù la tua vanità
spregevole è il tuo odio
che si nutre di falso,
deponi la tua vanità,
sollecito a distruggere, avaro in carità,
deponi la tua vanità
dico, deponila!
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
questa non è vanità
aver bussato, con discrezione,
perché un Blunt ti apra
avere colto dall’aria una tradizione viva
o da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma
questa non è vanità.
L’errore è in ciò che non si è fatto,
sta nella diffidenza che fece esitare…
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