Primo passo della Trilogia della vita, il Decameron si chiude su una battuta dello stesso Pasolini nelle vesti dell’allievo Giotto. Queste le parole, pronunciate di spalle, dinanzi all’affresco in Santa Chiara, a Napoli: «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?». L’explicit suona come una dichiarazione di poetica perentoria e problematica che parte dal finale e si dissemina anche retroattivamente in tutta l’opera pasoliniana, legandosi al contempo a un’altra frase, quella posta in epigrafe all’episodio ultimo della Trilogia, il Fiore delle mille e una notte. Frase che recita:«la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni». Giotto (così nella sceneggiatura, che nel film diventa un “allievo di Giotto”) sogna paradiso, inferno e Giudizio universale, imitando con tableaux vivants la grande pittura del Trecento.
Presentato al Festival di Berlino il 29 giugno 1971, il Decameron venne premiato con l’Orso d’argento. In Italia uscì il 25 agosto dello stesso anno, attirando su di sé accuse di pornografia, denunce e domande di sequestro.
Spostando la scena – e il sogno, come scena primaria – da Firenze a Napoli, Pasolini decontestualizza storicamente lo scenario della peste, affidando a Giotto la veste di attraversatore di volti e tempi e spazi, sempre in bilico tra la realtà dei poveri e l’irrealtà dei ricchi, tra l’osceno e il sacro, tra il corpo e la sua celebrazione. Giotto appare quindi, nelle parole dello stesso Pasolini, consegnate al trattamento del film, «buffo come un pagliaccio, con quel suo occhio divino che vede tutto, (…) e tutto trasforma in qualcosa di fisso e di eterno che vince il tempo».
Il rapporto col tempo è inscritto nelle immagini ferme, nelle istantanee dei volti e dei luoghi che Giotto «si imprime nella memoria», risognandoli in una pittura che inscrive sul muro segni e frammenti di quel tempo, in un film dove il rapporto tra vedere e non vedere, tra finire e proseguire, tra tempo dell’opera e tempo della vita riveste una funzione chiave.
Nel Decameron «gioco una realtà che mi piace ancora ma che nella storia non c’è più. Ho scelto Napoli per il Decameron perché Napoli è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, e, così, di lasciarsi morire» (Io e Boccaccio, Intervista di Dario Bellezza, “L’Espresso”, 22 novembre 1970).
Leggiamo dalla sceneggiatura del Decameron:
[L’allievo di Giotto] sogna l’Universo dopo la fine del mondo, è un Universo piccolo, che comprende poche centinaia di persone, e potrebbe essere contenuto in uno stanzone. Ma, per quanto piccolo, tale Universo è immenso, perché comprende al centro, in un ovale di luce circondato da facce di Angeli, il Signore Iddio [sarà in realtà, nel film, la Madonna col Bambino]. Alla sua destra e alla sua sinistra, ci sono, quasi simmetriche, le file dei Beati, che lo contemplano. Ci sono quelli più fortunati in prima fila, e poi tutti gli altri, di cui si vedono solo le teste, con le aureole che luccicano meravigliosamente. Dietro a tutti questi c’è il Cielo, anzi, essi sono nel Cielo. Il Cielo è nettamente diviso dall’Inferno; perché l’Universo di Giotto è nettamente diviso tra il Bene e il Male. Nello scuro Inferno, scavato nel tufo, ne succedono di tutti i colori: schiere di Dannati aspettano di essere giudicati per le loro Pene, con la disperazione negli atti e negli occhi, sorvegliati da Diavoli pelosi come scimmie. Più sotto, ci sono i Dannati che hanno cominciato la loro Eternità Infernale: le loro Pene sono le più crudeli, e il fuoco che li tormenta brilla secondo Giustizia, illuminando i Diavoli. La visione frontale e ingenua di Giotto – poiché questo è un sogno realistico – è piena di prospettive folli e vere di un luminismo caravaggesco, dove il solo è sole e il fuoco è fuoco. La visione è grandiosa; mai in tutto il film si è visto niente di simile: c’è da restare a bocca aperta davanti alla grandezza, alla bellezza, alla verità.
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