Quattro sfide per uscire dall’Italietta 2.0

di Marco Dotti

Negli anni Novanta la parola d’ordine era ancora “cambiamento”, oggi è “innovazione”. Negli anni Novanta la parola d’ordine era ancora “qualità” (della vita, del cibo, dell’aria), oggi è “eccellenza”.

Eppure, a dispetto della retorica sulle “eccellenze” e dei vaniloqui sull’innovazione (politica, economica, sociale che sia), l’Italietta 2.0 pare quella di sempre: un Paese dove molto ci si compiace nel discutere sui “soggetti” e poco si ama insistere sulle pratiche. 

Eppure è nelle pratiche che si eccelle o si innova e qualitativamente si cambia.  

Credo sia un po’ questo, con parole mie, il senso dell’editoriale di Vita di gennaio (leggetelo anche → qui).  

Riccardo Bonacina invita a sentirsi soggetti nella pratica e non per investitura, lo fa ponendo quattro sfide alla «società civile» e a quelli che chiama «cittadini attivi, in qualsiasi modo organizzati e in forme magari non riconosciute».

1. La sfida di un nuovo Servizio civile che permetta a tutti i ragazzi italiani di sperimentare la bellezza dell’impegno civico e magari di una professione che concili idealità e reddito.

2. La sfida di un’Impresa sociale capace di giocare la partita, che alcuni vorrebbero già scritta alla voce “privatizzazioni e svendite”, dei beni comuni, acqua, trasporto locale, fabbriche post-fordiste.

3. La sfida dell’Accoglienza, della cultura della solidarietà e della responsabilità che deve produrre nuove forme e nuove proposte. Dall’abitare ai luoghi.

4. La sfida del Lavoro e dei nuovi lavori non avendo paura né della tradizione né dell’innovazione.

Credo sia un invito importante, che consegue – opinione mia, benintesi – quello a cui a più riprese ci ha chiamati Papa Francesco. La sua Evangelii Gaudium ha colto nel segno destando (come scrive Massimo Borghesi sul Sussidiario → qui) scandalo e stupore negli Usa, ma da noi rischia di finire nel dimenticatoio, segno che più che attraversare le frontiere, in Italia si preferisce di gran lunga – per riprendere un’altra immagine del Papa – addomesticarle. Magari trasformandole in trincee, in attesa che arrivino i barbari.

Ma è proprio su queste frontiere, e in particolare su quelle del lavoro e dell’accoglienza indicate da Riccardo Bonacina (e che cercherò di problematizzare nei prossimi giorni, sul blog), che la pratica deve insistere e tentare il suo movimento. Movimento di sfida, se necessario.

Molto, in questa Italia in perenne “start up”, si insiste invece sull’istituzione da consolidare e poco sul movimento da tentare. Molto, verrebbe da aggiungere, sugli spazi bianchi in cui iscrivere il proprio nome – sempre a lettere maiuscole – e poco sul “che fare” per trasformare quegli spazi in luoghi praticati,vissuti. Con il risultato di ritrovarci tutti – chi ha preso parte al balletto e chi, semplicemente, ha assistito in silenzio – a non eccellere in nulla e in nulla innovare.

Ci vogliamo “società del fare”, ma per “fare” abbiamo bisogno di pensarci e crederci iniziatori di qualcosa. Al pari di Robinson nella sua isola, a ogni passo scopriamo l’orma di un Venerdì che ci precede e finiamo così – feriti nell’ego –  per non fare nulla, preferendo all’apertura, al rischio, alla pratica comuni, una lenta, ma rassicurante, perché solitaria, deriva.

Scriveva Søren  Kierkegaard che chi attende di cominciare un processo «come un Robinson, rimarrà un avventuriero per tutta la vita. Chi invece comprende che se non comincia concretamente non comincerà mai, che se non incomincerà mai non potrà mai finire, si pone a un tratto in continuità col passato e col futuro. Dalla vita personale egli trapassa in quella civile, dalla vita civile in quella personale».

Avesse letto Kierkegaard molta gente… Ma è  l’Italietta 2.0 che si informa da Fabio Fazio, che si indigna con la Litizzetto e si sdraia con Serra. L’Italia che si arrocca sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e poi fa spallucce davanti al Rapporto sulla coesione sociale 2013 dell’Istat che ci dice che il numero medio di lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato è in costante diminuzione (-1,3%) rispetto al 2012.

Un’Italietta dove – sempre dati Istat – la povertà relativa è ai massimi storici e colpisce il 12,7% delle famiglie residenti in Italia e il 15,8% dei singoli e dove i poveri in senso assoluto sono raddoppiati dal 2005 e triplicati nelle regioni del Nord, passando dal 2,5% al 6,4%. Un’Italietta 2.0 dove la povertà assoluta colpisce il 6,8% delle famiglie e l’8% dei singoli, dato che dal 2005 risulta addirittura triplicato nelle regioni del Nord (passate dal 2,5% al 6,4%). Un’Italietta 2.0 che finge di dibattere di jus soli, ma dove la retribuzione mensile netta per i lavoratori stranieri è di 968 euro.

Vogliamo ancora vivere nel pantano di questa Italietta delimitata da frontiere che si stanno trasformando trincee? Oppure preferiamo capire che – come ha indicato Papa Franecsco, praticando uno spazio nel corso della sua visita a Lampedusa – una frontiera va attraversata, persino sfidata, perché è la sua stessa natura che ci chiama a questa sfida? La struttura della frontiera, d’altronde, non solo simbolicamente, si apre al transito, ovvero a quel doppio movimento capace di senso che in sé comprende tanto l’incessante contestazione di ciò che è stabilito, avvenuto, quanto una continua, inesausta complicità con ciò che è sempre nuovo e sempre di là da venire.

Chi sa sporgersi, oggi, su quelle che lo scrittore argentino Ernesto Sábato chiamava le balaustre della notte? Se c’è qualcuno che ha ancora il coraggio di farlo questo è un invito all’opera. E all’azione. Sfrontata e intransigente, se necessario.

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