Ieri ho avuto la fortuna di un incontro capace di restituire senso alle cose che faccio e speranza in giorni tanto complicati. Sono stato a La Cometa (mai nome pare tanto giusto) alle porte di Como, un cascinotto che è, mattone dopo mattone e fatica dopo fatica, diventato già un villaggio dell’accoglienza, un’oasi aperta alla città, dove i minori con disagio sono accolti da famiglie, studiano, giocano, vanno a scuola, imparano un mestiere. La Cometa è luogo abbacinante di bellezza. Tutto è curato e pieno di segni e senso, gli spazi, i colori, i gesti. Denso di senso in maniera direttamente proporzionale alla sua apertura alla città e al mondo. Questi i numeri di Cometa:
– 4 Comunità Familiari costituite da 14 figli naturali e 24 in affido residenziale
– 50 famiglie coinvolte nell’esperienza dell’accoglienza e dell’affido
– 90 bambini e ragazzi coinvolti nelle attività diurne
– 130 bambini e ragazzi coinvolti nelle attività della polisportiva
– 1.000 minori aiutati a recuperare la motivazione allo studio e reinserirsi nel percorso scolastico con specifici corsi d’orientamento nella scuola secondaria
– 300 le famiglie dei ragazzi complessivamente seguiti con continuità da Cometa
– 180 ragazzi inseriti nei percorsi di formazione professionale
– 250 aziende coinvolte nei percorsi educativi della scuola
– 200 volontari e 250 operatori retribuiti a vario titolo coinvolti nelle attività
– 8.000 circa le persone che nell’ultimo anno sono venute in visita in Cometa
Parlando con loro mi sono reso conto della situazione paradossale cui sono costretti tanti soggetti portatori di speranza e, proprio per questo, costruttori di pezzi di società nuova. Il paradosso è che proprio là dove si costruiscono esperienze reali di bene e di relazioni buone, non si è liberi di farlo. Tutto questo in un quadro all’insegna del “Io faccio i cavoli miei”, a cominciare da chi dovrebbe governare la cosa pubblica.
La Cometa, nata dal gesto di gratitudine di due fratelli per un incontro che ha ridato senso ed energia alla loro vita, una gratitudine che è diventata una vera e propria onda costruttiva, si è dovuta strutturare, per operare, in sette (!) soggetti giuridici. Un’Associazione, una Fondazione, un’Associazione sportiva, una Scuola di Formazione per offrire percorsi di istruzione e formazione professionale per ragazzi in obbligo formativo che frequentano la nuova bellissima Scuola Oliver Twist di Cometa, due cooperative, Il Manto e la , e l’associazione Amici di Cometa Onlus. Ogni pezzo (e i lettori di Vita e di questo blog lo sanno bene) richiede di scalare montagne di burocrazia, di costosissima e faticosissima burocrazia, ogni pezzo per rendersi “riconoscibile” a chi governa, ogni pezzo per rientrare in quella che chiamano legalità e che invece è il regno del procedurale, regno capace di succhiare anche l’anima più nobile. Uno Stato serio e liberale (scordatevi Berlusconi e la sua corte per favore), dovrebbe lasciare liberi i costruttori di socialità (lasciano liberi invece solo i costruttori di cemento) limitandosi a controlli ex post sull’operato di tali soggetti. Invece no, i soggetti portatori di speranza e di socialità, fantasmi agli occhi del Codice civile mai riformato, sono costretti alle forche caudine per poter operare e rendersi utili alle comunità di riferimento. Per ovviare a tale mortificazione ci vuole un’enorme forza morale e grande motivazione interiore, ma questo è patrimonio di pochi, e tra loro c’è Cometa, i più, invece, di mortificazione in mortificazione, snaturano il motivo per cui sono nati.
Cambiare questo assetto letteralmente malefico è il contenuto ultimo del tentativo editoriale di Vita.
Una delle mie letture preferite, venti anni fa quando iniziai a raccontare “il sociale”, fu “Oltre la virtù”, libro di Alasdair MacIntyre scritto nel 1981 (Feltrinelli, 2007), mi aiutò a capire la novità di ciò che andavo raccontando, la diversità che tanto mi stava appassionando. MacIntyre legge con acutezza il fenomeno della fragilità morale della modernità. Ve ne riporto qualche brano:
“La natura della comunità morale in società tipicamente moderne è tale da rendere impossibile un ricorso a criteri morali, nel modo in cui era stato possibile in altre epoche. Il linguaggio della morale è nello stesso stato di grave disordine di quello della scienza naturale. Ciò che possediamo sono i frammenti di uno schema concettuale privo del contesto da cui derivava il suo contenuto. Viviamo in un epoca di dissoluzione dell’io. L’io tipicamente moderno (emotivo) non può essere identificato con nessun atteggiamento o punto di vista morale proprio perché i suoi giudizi sono in ultima analisi privi di criteri. L’io moderno non trova alcun limite a ciò su cui può pronunciare un verdetto. (…) Quello contemporaneo è un io disperso e democratizzato in balia di terapeuti e manager e conduttori, la nuova casta.”. Ma, sottolinea ancora Mac Intyre, l’azione morale è localizzata nell’io e non nei ruoli o nelle pratiche sociali. La cultura sociale oggi produce un’immagine e un sentimento dell’io come aggregato di segmenti e frammenti. Ogni segmento, l’amore, il lavoro, il tempo libero, il divertimento, ha la sua legge, il suo principio morale, (ci sono leggi per giocare, per amare, per lavorare, e così via). Forse è per questo che viviamo in un mondo di soli e depressi. L’esito di un simile paesaggio culturale e psicologico è quello di azzerare ogni costruzione in frammenti. La conseguenza inevitabile e tragica di questa confusione e dissoluzione dell’io è il dissolvimento della parola tu.
Che fare allora, come agire? MacIntyre finisce il suo libro con un suggestivo parallelo tra ciò che accadde alla fine dell’impero romano e ciò che si intravede oggi. Scrive: “Un punto di svolta decisivo nella storia antica, si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano, e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi pienamente conto di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. Questa volta i barbari non aspettano al di là delle frontiere ma ci stanno già governando da parecchio tempo”.
Ecco, bisogna ripartire dai monasteri luoghi di ricostruzione dell’io e della comunità, ed è questo quello che esattamente fanno gli amici di Cometa. Grazie.
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