Mondo

La Somalia è un inferno e la diplomazia internazionale ha le proprie responsabilità

di Giulio Albanese

Sui giornali italiani si parla raramente della Somalia eppure da quelle parti si sta consumando una vera e propria catastrofe: dai pirati che infestano le acque compiendo continue scorribande ai danni di qualsivoglia bastimento, ai sequestri di persona a scopo d’estorsione, per non parlare delle mattanze quotidiane a Mogadiscio e dintorni. Lo scenario è infuocato ovunque e la sensazione, ahimé, è che l’accordo del 9 giugno scorso raggiunto a Gibuti per l’agognata pace tra il Governo federale di transizione ( Tfg) e l’Alleanza per la ri-liberazione della Somalia (Ars), ratificato successivamente il 19 agosto, sia ormai lettera morta. L’intesa era stata raggiunta grazie alla mediazione dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Somalia, Ahmedou Ould-Abdallah, il quale era riuscito a vincere l’intransigenza mostrata da entrambe le parti sulla questione del ritiro del contingente militare etiopico dalla Somalia. In sostanza si chiedeva alle Nazioni Unite “in linea con la risoluzione 1814 del Consiglio di sicurezza dell’Onu e nell’arco di 120 giorni, di autorizzare e dispiegare una forza internazionale di stabilizzazione, composta da Paesi amici della Somalia, esclusi gli Stati confinanti”. L’accordo prevedeva che nello stesso arco di tempo “il governo di transizione somalo agisse in conformità alla decisione già adottata dal governo etiopico, di ritirare le sue truppe dalla Somalia dopo il dispiegamento di un numero sufficiente di forze Onu”. Da parte sua, l’opposizione si impegnava, “attraverso una solenne dichiarazione pubblica, a cessare e a condannare tutte le azioni di violenza armata in Somalia e a dissociarsi da tutti i gruppi o individui armati che non sottoscrivono i termini del presente accordo”. Chiaro che un certo scetticismo sull’applicazione dell’intesa rimaneva, ma era innegabile che si trattasse di un “passo avanti molto positivo verso la pace, rispetto a quando l’ipotesi di un dialogo tra le due parti non era neanche contemplata”, come aveva sottolineato Mario Raffaelli, inviato speciale del nostro governo in Somalia. L’unica condizione però perché si potesse davvero passare dalle parole ai fatti era la tempestività e il coinvolgimento della Comunità internazionale. Ma la macchina negoziale dell’Onu è andata a rilento per le lungaggini imposte in un primo momento dall’Arabia Saudita che rivendicava il diritto di celebrare la ratifica dell’accordo a Gedda. Inoltre la burocrazia delle Nazioni Unite – unitamente alle divisioni all’interno del Tfg e all’influenza negativa esercitata dall’Eritrea, tuttora canale principale per l’afflusso di aiuti militari ed economici alle frange estremiste – hanno fatto la loro parte, procrastinando la ratifica al 19 agosto, quando a fatica sono stati composti il comitato congiunto per la sicurezza e un altro di alto livello per le questioni legate alla cooperazione politica, la giustizia e la riconciliazione. Nel frattempo le battaglie quotidiane nella capitale hanno ulteriormente acuito la tensione, al punto che il 19 settembre scorso, quando sarebbe dovuto scattare il “cessate il fuoco” previsto dall’accordo, si è continuato a combattere. Mentre l’opposizione appare sempre più ostaggio del gruppo integralista islamico degli al Shabab, ritenuto legato ad al-Qaeda. Le responsabilità di questa tragica situazione ricadono certo sui violenti, ma anche sui temporeggiamenti di certe cancellerie che non hanno adeguatamente sostenuto i moderati. Un cosa è certa: la Somalia ormai è la prima emergenza umanitaria del pianeta, al punto che ormai è sempre più difficile segnalare e interpretare tutti i tragici episodi di cronaca che avvengono in quel Paese. Sta di fatto che a pagare il prezzo più alto è come al solito la povera gente: gli sfollati sono almeno tre milioni, circa un terzo dell’intera popolazione, costretti a vivere in condizioni indicibili.


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