La Camera di appello della Corte penale internazionale (Cpi) ha confermato ieri la sospensione di ogni procedimento contro l’ex “signore della guerra” congolese Thomas Lubanga, senza però ordinarne la scarcerazione. Leader della milizia Hema dell’Unione dei patrioti congolesi (Upc), Lubanga è stato il primo imputato catturato, a seguito di un mandato di cattura internazionale emesso dall’Aja nel novembre del 2006, per aver reclutato e utilizzato, nel corso del sanguinoso conflitto congolese, ragazzi d’età inferiore ai 15 anni, nell’ambito delle Forze patriottiche per la liberazione del Congo (Fplc), l’ala militare dell’Upc tra il 2002 ed il 2003. Le responsabilità di Lubanga riguardano in particolare la coscrizione di minori nella regione congolese dell’Ituri dove hanno perso la vita almeno 60mila civili. La difesa dell’ex signore della guerra, che fin dall’inizio del dibattimento ha sollevato problemi tecnici e procedurali, sostiene che l’imputato abbia sempre e solo ricoperto un ruolo politico negli anni scorsi e che l’etnia Hema, lungi dall’essere l’aggressore, fosse invece sistematicamente attaccata da altri gruppi rivali per motivi di lotta politica. Inutile nasconderselo, quanto è avvenuto ieri in camera di appello all’Aja, vanifica il ricorso presentato dall’accusa contro la decisione del 13 giugno scorso di sospendere il processo contro Lubanga, che avrebbe dovuto avere inizio il 23 giugno. A questo punto spetta alla Camera di giudizio (Trial chamber) la sentenza sulla sua scarcerazione. Una cosa è certa: l’operato della Corte dell’Aja non appare per nulla soddisfacente per motivazioni che attengono soprattutto al clima politico generale che vede attualmente un sostanziale arretramento dei livelli di diritto e giustizia internazionale conseguibili. E mentre Lubanga – paradossalmente, è il caso di dirlo -potrebbe essere scarcerato, la stessa Corte dell’Aja nel luglio scorso ha pensato bene di ordinare un mandato di arresto, sorprendendo le cancellerie di mezzo mondo, nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan el Beshir accusandolo digenocidio. Un capo d’imputazione che per un Capo di Stato di quel calibro non verrà mai attuato e che, com’è noto, richiede condizioni meno rigorose e fa correre minori rischi di mancato accoglimento da parte dei giudici, quando lo si sarebbe potuto accusare, con maggiore fondatezza e con maggiori possibilità di accoglimento, di crimini contro l’umanità quali lo sterminio, il massacro di civili e il trasferimento forzato di persone. A ciò si aggiunga il fatto che tale provvedimento ha praticamente interferito con le delicatissime iniziative imbastite faticosamente dalla diplomazia internazionale, in uno scenario, quello darfuriano, dove la soluzione dei problemi della povera gente è legata solo e unicamente all’ottenimento della pace. La sensazione, francamente, è che ad oltre dieci anni dalla firma del Trattato istitutivo del Cpi, avvenuto a Roma il luglio 1998, occorra sempre più vigilare perché questa istituzione possa essere davvero utile per reprimere le gravi violazioni del diritto internazionale, dei diritti umani ed in particolare dei minori che continuano a verificarsi nel nostro povero mondo.
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