Uno dei temi che ciclicamente riaffiora nei circoli intellettuali africani è il dibattito sui confini del continente. Ma le radici dell’instabilità geopolitica dell’Africa è davvero causata da quell’assurdo storico che sono le frontiere volute dal colonialismo? Ne sono fermamente convinti alcuni storici, economisti, scrittori e sociologi africani. Ma c’è chi, soprattutto nell’ambito della società civile, non vede in questa revisione una priorità nella via della pace. Com’è noto, la Conferenza di Berlino (1885), alla quale parteciparono tutte le grandi potenze del tempo – Germania, Austria/Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Portogallo, Russia, Svezia, Norvegia e Turchia, segnò il culmine di quello che gli storici chiamano “scramble for Africa”: la gigantesca competizione delle nazioni europee per conquistare territori, vantaggi economici e geopolitici d’ogni genere. Ecco perché il nigeriano Wole Soyinka, Nobel per la letteratura, ritiene che l’assise berlinese ha operato come “un sarto impazzito che tagliasse senza più fare attenzione al tessuto, al colore o al disegno del patchwork che sta confezionando”. Non v’è dubbio comunque che il risultato di questa spartizione sia stata l’estrema frammentazione del continente. “Non esistono sulla carta politica africana – afferma Edem Kodjo, dal 1978 al 1983 segretario generale dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) – frontiere che non abbiano distrutto in qualche maniera l’unità naturale di intere regioni. Altrove, particolarmente in Europa, gli Stati adoperavano come frontiere i corsi d’acqua oppure le montagne, cercando in questo modo di preservare intatte intere zone geografiche. In Africa, invece, si può fare una lunga lista delle frontiere che tagliano regioni originariamente omogenee. I nostri paesi sono delle anomalie geografiche. La rottura dell’unità originale dei monti Fouta Djalon (tra Guinea e Senegal), la divisione del bacino dei fiumi Senegal, Niger, Volta, in Africa Occidentale, e del bacino intorno al lago Ciad, la frammentazione dei paesi del bacino del fiume Congo, una delle aree idrogeografiche più importanti del mondo, e altri scempi ancora hanno ferito profondamente lo spazio africano”. A questo proposito ho trovato estremamente illuminante l’osservazione del grande e compianto Joseph Ki-Zerbo, uno dei maggiori storici del continente, il quale si chiedeva come mai “le potenze occidentali si siano affrettate a distruggere quei raggruppamenti regionali attraverso i quali avevano amministrato i loro immensi possedimenti coloniali, almeno per quanto riguarda l’impero coloniale francese e inglese”. Il riferimento è alla Federazione dell’Africa occidentale francese: Mauritania, Senegal, Mali, Benin, Burkina, Guinea, Costa d’Avorio; alla Federazione dell’Africa centrale francese: Centrafrica, Ciad, Gabon e Congo-Brazzaville; alla Federazione inglese d’Africa centrale: Malawi, Zambia e Zimbabwe; e alla Federazione inglese d’Africaorientale: Tanzania, Uganda e Kenya. Per lo storico burkinabé, le frontiere dell’Africa “vanno ridisegnate, con una decisione coraggiosa che i padri fondatori dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) non hanno avuto la lungimiranza di prendere a suo tempo”. Da questo punto di vista c’è da considerare che in Paesi dell’Unione Africana, nel loro complesso, sono unanimemente allergici alla messa in discussione delle frontiere ereditate dalle ex potenze coloniali. In particolare va ricordato che sia nel caso del Kosovo come anche del Somaliland, la maggioranza delle cancellerie africane ha duramente criticato il loro riconoscimento in quanto violerebbe il principio giuridico internazionale che sancisce il rispetto dell’integrità territoriale dei singoli Stati. In effetti non è così facile ridisegnare le frontiere, considerando che questi mutamenti andrebbero contro l’istanza di regionalizzazione della politica e dell’economia. In un mondo villaggio globale in cui si afferma l’esigenza di aggregazioni soprannazionali (es.: Unione Europea, Unione Africana…) forse bisognerebbe avere il coraggio di andare al di là dei nazionalismi. Su Nigrizia di qualche hanno fa lessi il pensiero del Cardinal Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum, il quale sostiene che “è meglio lasciare le frontiere così come sono, perché viviamo in un’epoca dove nessun gruppo è autosufficiente. E le frontiere esistenti sono già assai restrittive. Mi sembra più importante badare a ciò che succede all’interno delle frontiere attuali. La vera sfida per ogni governo è quella di assicurare a ciascun gruppo, indipendentemente dalla sua appartenenza etnica o religiosa, la sua libertà. I governi devono impedire che un gruppo etnico o religioso possa imporsi su di un altro; devono, perciò, salvaguardare l’identità di ciascun gruppo. Occorre affermare il principio secondo il quale la diversità all’interno di un paese è un valore da apprezzare e da condividere per il bene di tutti. Dobbiamo affermare, con forza, che la scomparsa dalla faccia della terra di una sola lingua o di un solo gruppo etnico, seppure piccolo, è una perdita per l’umanità”. Nell’ ambito della società civile congolese, tanto per citare un altro esempio, sono in molti a pensare che i tentativi di realizzare nuovi “puzzle” nell’ex Zaire siano espressione dell’affermazione d’interessi economici ed egemonici ruandesi, a scapito della matrice nazionale di un Paese, l’ex Zaire, che chiede solo di vivere in pace. Una cosa è certa. L’adesione dei popoli a qualsiasi progetto unitario è possibile solo nel pieno rispetto di alcune regole: il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, una gestione sana dell’economia e un innalzamento del livello di vita delle popolazioni, che si accompagni a una redistribuzione delle risorse equa tra le varie componenti etniche, progressi reali sulla via della liberalizzazione politica che superi gli attuali partiti basati sull’elettorato etnico. Facile a dirsi ma difficile a farsi…
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