Mondo

Mandato di arresto nei confronti di Beshir

di Giulio Albanese

Il mandato di arresto nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan el Beshir, spiccato ieri dalla Corte penale internazionale, era nell’aria da tempo. Si tratta di un provvedimento che porta inevitabilmente alla ribalta il problema dei rapporti tra l’adempimento della giustizia e l’affannosa ricerca della pace. L’intento dei giudici dell’Aja è quello di riaffermare solennemente il primato della Giustizia producendo un effetto di delegittimazione politica, sul piano internazionale, del presidente sudanese che fin dall’inizio della sua dittatura si è macchiato di gravissimi crimini, particolarmente da quando è esplosa nel 2003 la crisi nella regione del Darfur. Il sottoscritto ha sempre condannato le cattiverie di Beshir e la cricca di briganti che regna incontrastata a Khartoum, ma non condivide affatto questa scelta della Corte dell’Aja. E sì perché a questo punto vi sono davvero tutti gli ingredienti per pregiudicare il difficile cammino negoziale dell’annoso e penosissimo conflitto darfuriano. E’ vero che da una parte l’incriminazione di Beshir conferma il suo coinvolgimento diretto nelle atrocità commesse nel Darfur, come peraltro denunciato ripetutamente da diverse organizzazioni umanitarie; dall’altra, però, è illusorio pensare che il Sudan consegni nelle mani della giustizia internazionale la propria massima autorità. Come ho avuto già modo di scrivere nel passato, sono convinto che sia ingenuo pretendere che questo passo della Corte possa,  “ipso facto”, determinare un miglioramento della situazione dei diritti umani in Sudan. Sarebbe invece stato auspicabile che la diplomazia internazionale fosse stata messa nelle condizioni di fare il proprio corso, senza dover subire interferenze da parte della Corte, in uno scenario, quello darfuriano, in cui è tragicamente urgente arrivare a una pace. Se la diplomazia internazionale dovesse fallire la propria missione nel Darfur, dove è in gioco il destino di milioni d’innocenti, non sarebbe certo una vittoria della giustizia a cui tutti aneliamo. L’espulsione in queste ore dal Sudan di alcune organizzazioni internazionali – non è ancora chiaro il numero esatto: almeno 6, forse 10 – accusate da Khartoum di cooperazione con la Corte Penale Internazionale, la dice lunga. D’altronde vi è un precedente in Africa che avrebbe dovuto indurre i giudici dell’Aja a tutt’altre considerazioni, quello di Joseph Kony, famigerato leader dei ribelli nordugandesi dell’esercito di Resistenza del Signore (Lra). Il rifiuto da parte del Cpi di accettare che Kony si arrendesse alla giustizia ugandese è infatti alla base del fallimento delle trattative di pace tra lo Lra e il governo ugandese, con la conseguente estensione del conflitto nella vicina Repubblica Democratica del Congo. Commettere pertanto lo stesso errore con Beshir potrebbe avere conseguenze ancora più devastanti nel Darfur. Per carità, non ho la sfera di cristallo tra le mani, ma ho la sensazione che qualcuno nelle alte sfere della giustizia internazionale stia giocando col fuoco. A meno che i servizi segreti di qualche potenza straniera non abbiano deciso, d’intesa con l’opposizione sudanese, di rovesciare il governo di Beshir con un golpe.

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