Il problema dei fenomeni migratori scaturisce dalle “emergenze umanitarie” che “intaccano la dignità delle popolazioni più svantaggiate costringendole a diventare vittime di reti criminali che approfittano della loro miseria e si arricchiscono alle loro spalle”. Lo ha affermato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano celebrando venerdì scorso al Quirinale la Giornata dell’Africa. Nel suo intervento il capo dello Stato ha anche precisato che “la crisi economica non deve mettere in discussione i valori di solidarietà e accoglienza, nel rispetto della legge, cui si ispirano le nostre democrazie”. Condivido l’analisi del nostro presidente, nella consapevolezza che sono trascorsi quarantaquattro anni da quando nacque l’Organizzazione per l’Unità Africana (Oua). Era il 25 maggio del 1965 e il continente africano allora sembrava dovesse diventare la metafora dell’agognato sviluppo. Eppure ancora oggi, nonostante l’avvento dell’Unione Africana (Ua) nel 2002, tutto sembra essere ancora avvolto dentro la sottile e penetrante polvere dell’Harmattan, il vento del deserto che rende ogni realtà grigia e indistinta. L’Africa in effetti resta un pianeta distante dall’immaginario occidentale, trascinandosi dietro il pesante fardello di una cronica instabilità fatta di guerre, carestie e pandemie. Sta di fatto che le “pene” delle Afriche – meglio usare il plurale trattandosi di un continente grande tre volte l’Europa – esigono uno sforzo ermeneutico, nella consapevolezza che il continente non è povero, ma impoverito. Impariamo cioè a distinguere tra i problemi economici e sociali e il benessere che non si misura esclusivamente in termini di ricchezza prodotta o consumata. Forse non tutti sanno che le Afriche galleggiano sul petrolio e che interi Paesi dispongono di miniere a cielo aperto che vanno al di là di ogni fantasia e immaginazione. Eppure questo paradiso continentale fatto di savane, foreste e struggenti tramonti, rappresenta paradossalmente il fanalino di coda dello sviluppo tanto anelato per una sorta di cortocircuito tra il micidiale connubio delle oligarchie locali con poteri più o meno occulti di matrice straniera e gli interessi della povera gente. Nonostante tutto però l’Africa continua a vivere e palpitare, sorprendendo persino i suoi detrattori. Inserendosi negli interstizi lasciati dai fallimenti dei “presidenti padroni”, che ancora oggi continuano a fare il bello e il cattivo tempo, le società africane esprimono infatti una straordinaria voglia di riscatto che si manifesta in una vivacità culturale ancora ignota all’occidente. D’altronde, come rileva il sociologo ivoriano Assouman Yao Honoré “i Paesi africani partecipano con specifici e forti contributi allo sviluppo complessivo del pianeta”. Dal Nobel nigeriano Wole Soyinka, al suo connazionale scrittore di fama internazionale Chinua Achebe; dal compianto poeta e statista senegalese Léopold Sédar Senghor, al carismatico leader della lotta contro l’apartheid in Sudafrica, Nelson Mandela. La loro testimonianza rappresenta un patrimonio che va ben oltre i confini geografici del continente e interpella le coscienze su scala planetaria. D’altronde, come indicato da Benedetto XVI nel corso del suo recente viaggio in Camerun e Angola, vi sono degli aspetti davvero vitali nelle culture africane: il senso religioso, l’amore per la vita e l’attaccamento alla famiglia. Tutte dimensioni che ci aiutano a comprende quello che spesso ci dicono i nostri missionari e volontari: che la cooperazione non consiste solo nel dare, ma anche saper ricevere. Come spiega con lucidità e schiettezza lo scrittore nigeriano Chinua Achebe, “anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore”. Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare all’Africa senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa. Sì perché l’Africa non è povera, ma semmai impoverita; non chiede beneficenza da parte di noi ricchi Epuloni, semmai invoca giustizia. L’ho scritto tante volte e non mi stancherò mai di ripeterlo ai nostri politici: Europa e Africa nel mondo “villaggio globale” hanno un destino comune.
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